Eco silenziosa

Menzione speciale alle lavoratrici di Doruntina Kastrati
di Marisa Santin

Attraverso le forme lucide e fredde delle sue geometrie, l’installazione scultorea “The Echoing Silences of Metal and Skin” nello spazio del Museo Storico Navale offre uno sguardo penetrante sulla complessità della condizione femminile nel contesto post-bellico del Kosovo.

All’indomani della guerra che sconvolse i Balcani, il massiccio impiego di manodopera femminile nelle industrie leggere del Kosovo generò nelle donne un’illusione di indipendenza finanziaria e di paritetica partecipazione sociale. Le lavoratrici si ritrovarono in realtà intrappolate in un sistema che perpetuava i tradizionali ruoli professionali di genere, lasciandole economicamente vulnerabili e politicamente marginali. Attraverso le forme lucide e fredde delle sue geometrie, l’installazione scultorea di Doruntina Kastrati, dal titolo The Echoing Silences of Metal and Skin, offre uno sguardo penetrante sulla complessità della condizione femminile nel contesto post-bellico del Paese. In particolare, il progetto di Kastrati rielabora l’esperienza di dodici lavoratrici di una fabbrica di lokum (dolce turco) a Prizren, la seconda città più grande del Kosovo e città natale dell’artista. A causa dei ritmi estenuanti e delle molte ore di lavoro svolto in piedi, molte di loro hanno subito interventi di sostituzione del ginocchio. Le sculture metalliche riprodotte nello spazio kosovaro, modellate sulle noci che vengono utilizzate come ingredienti nei lokum, richiamano nella forma gli impianti metallici nei loro ginocchi caricandosi di un significato simbolico che allude alla loro condizione di operaie precarie e sfruttate. Nell’opera di Kastrati riecheggia il pensiero di Hannah Arendt. Nel suo libro La condizione umana del 1958 la filosofa tedesca sosteneva che nel momento stesso in cui si viene a creare un ambito in cui le questioni di giustizia e ingiustizia non sorgono, o, se lo fanno, vengono immediatamente eliminate, non siamo più nel regno delle questioni umane, ma in un’organizzazione sociale in cui le cose devono solo ‘funzionare’, un’organizzazione che, anziché uomini e donne con le loro capacità imprevedibili e molteplici, richiede solo ‘lavoratori’ addestrati e confinati a un numero limitato di funzioni. Con la sua installazione, che la Giuria della 60. Biennale Arte attribuendole una menzione speciale ha definito “piccola ma potente”, Doruntina Kastrati ci ricorda che il femminismo non è semplicemente una questione di genere; si tratta di cambiare le dinamiche di potere che hanno lasciato le donne economicamente dipendenti dagli uomini, relegate a ruoli secondari nella società e troppo spesso vittime delle conseguenze della violenza maschile.

Immagine in evidenza: Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Andrea Avezzù

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