A Palazzo Vendramin Grimani, sede della Fondazione dell’Albero d’Oro, le due artiste presentano Per non perdere il filo una mostra, Evento Collaterale alla Biennale Arte 2024, tutta al femminile, originale e unica nel panorama espositivo veneziano.
Una calle che si insinua tortuosa tra i palazzi da Campo San Polo al Canal Grande porta a Palazzo Vendramin Grimani, sede della Fondazione dell’Albero d’Oro, dove è in corso una mostra, Evento Collaterale alla Biennale Arte 2024, tutta al femminile, originale e unica nel panorama espositivo veneziano. Stiamo parlando di Per non perdere il filo, curata da Daniela Ferretti, che offre un percorso insieme intimo e universale, personale e collettivo dove si incontrano due artiste: Karine N’Guyen Van Tham e Parul Thacker. Ciò che unisce le due artiste è la passione con cui tessono, ricamano e realizzano a mano opere affascinanti con un potere narrativo straordinario. Questo gesto artigianale che permette di unire fili, fabbricare pezzi di tessuto, inventare forme ricamate e attribuirvi un forte significato si iscrive in una tradizione veneta ancestrale: quella di “far filò”. Il termine “filò” deriva presumibilmente da “filare”, il lavoro che le donne facevano assieme nelle stalle, in montagna o in pianura, durante la stagione fredda. Questi raduni permettevano di restare al caldo, passare del tempo assieme, recitare il Rosario, fare piccoli lavori manuali, discutere di tutto e di niente tra vicini, “contraenti”, parenti e persone di passaggio. Così “far filò” significa chiacchierare, raccontare, conservare, ma anche trasmettere saperi, tradizioni, storie. Karine N’Guyen Van Tham e Parul Thacker, due artiste con metodi di lavoro opposti, una franco-vietnamita, l’altra indiana, si incontrano per la prima volta a Palazzo Vendramin Grimani e si legano personalmente e artisticamente grazie a questa tradizione, a questo filo, lo stesso che intende unire tutti i visitatori della mostra, ovunque essi provengano. Thacker è stata a lungo affascinata dal potenziale scientifico e creativo della materia. Le sue opere, quasi algoritmiche, sono fatte di metalli preziosi, minerali e oggetti in legno. A metà strada tra pitture e sculture, i suoi lavori, inclassificabili, evocano la preghiera, la pazienza e il raccoglimento. L’installazione presentata al piano terra del Palazzo è eloquente: 21 grandi tele in organza di seta, i cui ricami evocano la topografia della regione artica dove l’artista è stata in residenza, sono presentate in stretta sequenza e accompagnate da un sottofondo musicale prodotto dalle note di un rudra veena (strumento a corda indiano) e dai suoni delle acque di Spitsbergen, in Norvegia. Karine N’Guyen Van Tham parte da racconti, pezzi di vita o storie inventate o vissute. Ne trae testi di una estrema poesia che scrive a mano su carta invecchiata e inserisce vicino alle sue installazioni, piegati a metà in modo che il visitatore possa decifrarne solo una minima parte. Le sue opere sono abiti, vettori di memoria poiché contengono ancora l’impronta del corpo di chi li ha indossati, anche se non è più presente. Interamente prodotte a mano con un piccolo telaio a partire da filo di lino, l’artista realizza le fasce di tessuto e le colorazioni blu indaco, rosso e ocra. Al momento dell’uscita ogni visitatore è invitato a lasciare un pezzo di filo che gli appartiene. Tutti i fili, avvolti in un’unica matassa, saranno impiegati da Karine N’Guyen Van Tham per creare un’opera unica che tesserà a conclusione della mostra, unendo idealmente tutti i visitatori.