Il gene del male

Daniel Pešta, in ogni individuo qualcosa non va
di Adele Spinelli

Con la mostra Something Is Wrong l’artista ceco torna a Venezia trasformando lo Spazio Tana / Tanarte in un inquietante osservatorio sui mali del mondo.

È il 1971, nei sotterranei dell’Università di Stanford 24 studenti si apprestano a spogliarsi della propria identità per prendere parte a quello che sarà ricordato come uno dei più importanti esperimenti di psicologia sociale del Novecento. Una simulazione della durata di due settimane in cui, guidati dal professor Philip Zimbardo, due gruppi di individui sono chiamati ad abitare un’immaginaria prigione vestendo i panni di guardie e carcerati, con lo scopo di indagare l’origine dei comportamenti antisociali nei penitenziari. Tuttavia, dopo soli sei giorni, il team di ricerca si trova costretto ad interrompere l’esperimento a causa del crescente numero di brutalità e abusi perpetrati dai fittizi carcerieri nei confronti dei prigionieri. L’esito della simulazione sconvolge la comunità scientifica: se fino ad allora la violenza era immaginata come peculiare caratteristica dell’individuo deviato, ora si attesta quale condizione ineluttabile della natura umana, un “genoma diabolico” collettivo, dormiente ma attivato da specifiche situazioni, tra tutte, la depersonalizzazione derivata dall’adesione a un particolare gruppo o ruolo sociale.

È proprio questa innata condizione il soggetto chiave dell’opera di Daniel Pešta, artista ceco (classe 1959), che con la mostra Something Is Wrong torna a Venezia trasformando lo Spazio Tana / Tanarte in un inquietante osservatorio sui mali del mondo. Cresciuto nella morsa del regime comunista, dai primi anni Ottanta Pešta esplora le ossessive macchinazioni della politica e la forza distruttiva delle masse manipolate, che attraverso un’ampia gamma di mezzi espressivi in mostra trovano un sinistro epilogo. Ispirato dall’esperimento di Stanford, nel primo ambiente l’artista rievoca l’atmosfera di una cella popolata da ordinate schiere di uomini senza volto, vittime e carnefici, la cui brutalità si riflette nelle opere circostanti avvolte in nubi atomiche e abbozzi di corpi martoriati.

Seguendo la silente processione, si giunge al secondo ambiente, un asettico laboratorio dove rivoli di sangue disegnano sulle pareti mostruosi ammassi di carne, a ricordare gli effetti devastanti del potere subito ed esercitato, ma anche della bestialità dell’uomo moderno, abbandonato agli istinti e privo di inibizioni. In questo eterno dualismo tra potere e obbedienza, tra individuo e società di massa, tra realtà e alienazione, una sola è la strada tracciata da Pešta verso la redenzione: al centro del percorso, da un blocco rosso sangue, si leva la pallida figura di Gesù Cristo che, spogliato di sovrapposizioni storiche e religiose, diviene simbolo universale del ritorno alla spiritualità, unico antidoto al “gene del male”.

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