Al progetto del Vaticano per questa Biennale Arte si accede allontanandosi dal gremito circuito di Giardini e Arsenale, rinunciando alla connessione digitale e abbandonandosi a una sorta di pellegrinaggio che fonde consistenza artistica e consapevolezza sociale.
Curiosando nella lista etimologica dedicata al verbo “vedere”, può essere interessante soffermarsi sulla sua accezione di “scorgere con gli occhi della mente”, al fine di saper distinguere. Uno sguardo introspettivo che rinnova la percezione sull’esterno. Così come li definiva Sant’Agostino, servono oculi interiores per fare esperienza della mostra del Padiglione Santa Sede nella Casa di Reclusione Femminile di Venezia alla Giudecca – occasione che ha anche portato per la prima volta un pontefice a visitare la Biennale di Venezia. Aver partecipato a Con i miei occhi non significa aver fagocitato un’altra mostra. Il tempo necessariamente si dilata per visitare il Padiglione e osservare le opere di Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Suor Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret. Nell’overdose – spesso pseudo-artistica – di questa Biennale Arte, il Vaticano richiede un pellegrinaggio, una certa liturgia per raggiungere la sede espositiva e una specifica modalità di visita. Gli ingressi sono contingentati. Si accede attraverso una registrazione online a cui si allega un documento di identità. Allontanandosi dal gremito circuito di Giardini e Arsenale, si deve galleggiare sulle acque lagunari, salire sul vaporetto – versione meccanica dello psicopompo Caronte – per raggiungere la riva opposta. Ci attende questo insieme di otto isole che confluiscono in Dorsoduro, ma la cui identità è orgogliosamente autonoma. La Giudecca è un varco spazio-temporale che condensa in sé Palladio, case popolari, hotel di lusso, ex industrie, giardini, monasteri e gallerie d’arte. Si scende all’imbarcadero Palanca e in pochi passi si raggiunge Fondamenta de le Convertite. La peregrinazione è compiuta. L’ingresso del carcere è anticipato dalla monumentale installazione Father di Cattelan, che ricopre la facciata della cappella adiacente al carcere con una gigantografia di piante dei piedi in bianco e nero. Se, come afferma l’artista, «i piedi, insieme al cuore, portano la stanchezza e il peso della vita», sono anche trait d’union per la storia dell’arte e delle Sacre Scritture; dall’Ultima Cena, ai capolavori di Mantegna e Caravaggio. Il personale dell’Istituto Penitenziario ci attende. Documenti controllati, telefoni ritirati. Nessuna traccia video-fotografica rimarrà dopo la visita. La memoria visiva sopperirà a questa sana disintossicazione digitale. Si accede dove il concetto quotidiano di libertà decade. Qui l’arte ci educa ad allenare una sensibilità altra. Ecco le detenute, i nostri Virgilio, che ci condurranno alla scoperta delle opere. Sostengono che «vincere significa sentirsi liberi, anche se per un istante». La collettiva curata da Chiara Parisi e Bruno Racine è un unicum in grado di fondere consistenza artistica a consapevolezza sociale. La Santa Sede, che nei secoli tanto rappresenta il Divino quanto l’errare dei mortali che lo rappresentano, ha compiuto una scelta giusta perché coraggiosamente umana.