Being Ai Weiwei

Conversazione con Giandomenico Romanelli
di Giandomenico Romanelli

Una delle cose migliori da vedere a Venezia in questa stagione densa di accadimenti e presentazioni è certamente la mostra di Ai Weiwei nell’Abazia benedettina di San Giorgio Maggiore sull’Isola di San Giorgio. L’esposizione, davvero imperdibile, inauguratasi all’inizio di settembre, è stata fortemente voluta, nonché prodotta, da Adriano Berengo con Galleria Continua.

Già conosciutissima, l’opera di Ai Weiwei in ogni nuova produzione espositiva dimostra una pluralità di linguaggi e di materiali, nonché di attitudini creative, incredibili, degni della sua fama e certamente capaci ogni volta di sorprendere critica e pubblico. Fra tutte le sue nuove produzioni, ora le più sorprendenti e intriganti sono quelle realizzate in lego, ben presenti in mostra. Tuttavia qui vorrei parlare di ciò che mi ha colpito in maniera particolare, che è poi l’Opera centrale dell’esposizione, vale a dire il grande candelabro (lampadario) in vetro che pende dall’alto della cupola di San Giorgio all’interno della Basilica. È un’installazione di assoluta novità sotto ogni punto di vista: per i materiali usati e per il modo di assemblarli, nonché per le sue dimensioni. Si tratta di un lampadario alto quasi nove metri, il cui diametro arriva a toccare i sette metri; non sto a dire il peso, naturalmente ingente (la descrizione tecnica del lavoro è possibile leggerla nella scheda di presentazione dell’opera stessa). Mi ha colpito il modo in cui Ai Weiwei affronta il tema, La Commedia Umana – Memento Mori, con strumenti che usualmente troviamo nell’immaginario della nostra epoca e soprattutto delle epoche precedenti, che qui vengono destrutturati, decostruiti e poi rimontati dall’artista. La forma esterna dell’opera si presenta di fatto come un grande lampadario di Murano, con uno scheletro metallico da cui partono dei bracci stile lampadario di Ca’ Rezzonico, realizzato in vetro nero opaco, vetro che non fa luce, ma caso mai riflette e rifrange le luci che lo circondano, artificiali o naturali che siano, e da cui viene inondato.

Cosa sono gli elementi che costituiscono il corpo vetroso del lampadario? Sono delle parti anatomiche sezionate, scomposte e rimontate in una specie di sarabanda di centinaia di pezzi: riconosciamo crani, ossa umane e teschi di animali, ma anche parti interne come fegato, milza, genitali, cuore, in un’incredibile, singolare e assolutamente inedita composizione. Nel grande lampadario prevalgono femori, tibie, soprattutto colonne vertebrali, tutti elementi in vetro nero costruiti pezzo per pezzo con una mirabile tecnica di fusione e di rifinitura a mano. Anche in questo caso, così come nella forma esterna, gli elementi e il materiale usato, ossia il vetro, fanno parte di un immaginario collettivo noto; tuttavia nell’opera assumono una significazione completamente diversa. Rimandano ai corpi dei santi, a quelle incredibili ostensioni di crani o di altre parti anatomiche ancora, la cui tradizione si è trasmessa fino a noi, soprattutto in alcune chiese del Sud Italia, a Otranto per esempio, o a Roma, dai Cappuccini, dove incredibili insiemi di ossa sottolineano la caducità del nostro passaggio in terra. Erano forme e pezzi, singoli elementi di scheletri, quelli che facevano parte dell’immaginario delle danze macabre medievali oppure delle tombe dei re francesi, dei re giacenti alla Basilique Cathédrale de Saint-Denis, distesi su una specie di cataletto, che in alcuni casi addirittura venivano rosicchiati da animali, topi, ragni e insetti, che consumavano la carne e le parti molli del morto, facendo emergere le sue ossa. Una raffigurazione ben restituita, per esempio, anche dal Carpaccio nei suoi dipinti: nelle raffigurazioni del San Giorgio che uccide il drago l’evento si dispiega su una specie di tappeto di ossa. Nell’introduzione del piccolo catalogo di questa mostra, Ai Weiwei si sofferma letteralmente sulla condizione umana per cui «eravamo polvere e polvere diventeremo».

Il lampadario mi ha ricordato moltissimo anche le performance degli scultori barocchi, per esempio ai Frari, nella tomba di Giovanni Pesaro: una grande macchina celebrativa che alla potenza viva e muscolare dei neri, che sostengono il cataletto della statua del doge, intervalla scheletri che reggono tra le mani cartigli nei quali scorrono osservazioni legate alla morte e alla caducità dell’essere umano.
In altri momenti della storia dell’arte più recente i surrealisti, ad esempio, hanno utilizzato questi elementi dell’immaginario nelle loro opere e così anche, ancora prima dei surrealisti, la componente simbolista. Alfred Kubin raffigura una quantità, decine e decine, di scheletri danzanti o impegnati in altri tipi di attività “vitali”. Altri artisti hanno rappresentato una realtà assolutamente costruita, artificiale, partendo da elementi naturali; tra questi Paul Delvaux e Magritte.

L’assemblaggio degli infiniti elementi che compongono questa straordinaria opera di Ai Weiwei, l’effetto visivo che genera, questa capacità di mimetizzare i materiali trasformandoli in altro, sono tipiche e proprie del barocco, che usa il marmo come se fosse stoffa e la stoffa come se fosse marmo. L’operazione dell’artista cinese, intelligentissima anche dal punto di vista del risultato, è di un virtuosismo inimmaginabile: le migliaia e migliaia di pezzi infilati con quelli che vengono chiamati “bicchieri” nei bracci dei lampadari di Murano, con un lavoro enorme e mirabilmente minuzioso da parte dei maestri vetrai della fornace-laboratorio di Adriano Berengo, fingono di essere altro da quello che rappresentano o da quello che in effetti sono. La capacità tecnica dei maestri che hanno lavorato a un’opera come questa la si vede nei dettagli più incredibili, con questa materia prima capace di regalare una stupefacente morbidezza e una leggerezza infinita alle forme delineate, proprio come nella scultura barocca, quando si facevano i veli che coprivano i corpi con un incredibile virtuosismo tecnico. Una tecnica di mimetizzazione ma anche di metamorfosi che Ai Weiwei ha potuto fare sua grazie alla perizia che caratterizza da sempre il lavoro dello Studio Berengo. L’artista ha avuto certamente l’idea, poi l’esito è frutto di un lungo confronto ravvicinato con Adriano Berengo, il quale ha poi affidato la realizzazione concreta dell’opera ai suoi maestri, conoscitori sopraffini della forgiatura di questa materia come pochi altri a Murano. Un patrimonio di conoscenza che fa della versatilità uno dei suoi tratti distintivi imprescindibili, patrimonio che tutti noi, preoccupatissimi, ci auguriamo resista nel tempo.

Ai Weiwei è a sua volta un artista assolutamente eclettico dal punto di vista dell’utilizzazione dei materiali e del loro assemblaggio: tutti ricordiamo i gommoni che ricoprivano le facciate di Palazzo Vecchio a Firenze e, qui a Venezia, a Sant’Antonin, quella specie di plastico che lo raffigurava quando era prigioniero. Ricordiamo anche altre sue ‘esplorazioni’, come la sua passione per il lego di cui si è accennato all’inizio, per cui realizza grandissime composizioni e ritratti con un virtuosismo straordinario. L’artista quindi si è in questa occasione fatto provocare dal vetro ed è diventato a sua volta un provocatore del vetro, provocando chi osserva il vetro. Da questo punto di vista Adriano Berengo lo ha compiutamente assecondato, alcune volte lo ha addirittura stimolato o provocato lui stesso. Anzi, userei più correttamente il verbo “sfidare”: Ai Weiwei e Berengo si sono sfidati reciprocamente nello studio di Murano. Hanno fatto una sorta di duello molto signorile sul vetro, con il vetro e per il vetro. Il risultato è un modo di intendere questa materia assolutamente nuovo e originale.

Adriano Berengo e Ai Weiwei, © Edward Smith

Berengo ha indicato con spregiudicatezza e genialità in questi anni, assieme ad Ai Weiwei e a tutti gli altri artisti internazionali che lavorano nel suo studio a Murano, che il vetro può avere anche una declinazione diversa e soprattutto può essere un materiale e uno strumento altamente congruo alle produzioni di arte contemporanea. Ormai da diversi decenni sono moltissimi gli artisti che utilizzano il vetro creando le loro opere nel suo studio e nella fornace, confrontandosi con un nuovo modo di leggere e intendere questa materia.
Sono stato anch’io qualche mese fa in fornace e ho potuto vedere i pezzi dell’opera che cominciavano a uscire, nonché un modello in scala minore del lampadario. La mia prima reazione non poteva che essere la seguente: «Questo è un grande barocco, un grande artista barocco!».

 

 

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