La tecnologia del corpo

Un real-time film di Caden Manson e Jemma Nelson
di Loris Casadei

Tra gli ospiti più attesi della 50. Biennale Teatro la compagnia newyorkese Big Art Group di Caden Manson e Jamma Nelson presenta in prima europea lo spettacolare Broke House, una meditazione sugli stati attuali dell’America.

Fondata nel 1999 da Caden Manson e Jemma Nelson a New York, Big Art Group è una compagnia nata per la creazione di performance underground che si è presto guadagnata fama internazionale grazie ad uno specifico linguaggio che unisce azione attoriale, video, cinema e animazioni digitali. Linguaggio decisamente crossover per cui è stato coniato il termine real-time film. Direttore artistico del collettivo è Caden Manson, alla guida anche della sezione teatrale di una delle più prestigiose università private newyorchesi, il Sarah Lawrence College.

Broke House, a Venezia in prima europea, trova ispirazione da Le tre sorelle di Cechov e dal film Gray Gardens (1975) di Albert e David Maysles. Quest’ultimo documenta la vita di una zia e di una cugina di Jacqueline Kennedy, stagnanti in una fatiscente dimora che non possono più mantenere, così come le tre sorelle di Checov in attesa del trasferimento a Mosca.
Due i livelli di lettura della piéce: il primo razionale e sociale, ovvero portare in primo piano il tema della situazione abitativa negli Stati Uniti (ricordate Nomadland di Chloe Zhao, vincitore del Leone d’oro alla recente Mostra del cinema di Venezia) e le battaglie contro gli sfratti; il secondo più intimo, che è poi il vero motivo conduttore dello spettacolo, ossia il voler dar forma alle prospettive, ai desideri e alle motivazioni degli uomini mettendo sull’altro piatto della bilancia l’evanescenza delle loro esperienze sensoriali.
All’inizio dello spettacolo vi è un tentativo di costruzione di una comunità umana a partire dal suo nucleo classico, la famiglia, con i suoi valori e i suoi rituali. Poi progressivamente un crescente senso di angoscia provocato da una serie di eventi disastrosi, tra abbandoni e conflitti, dissolvono questa patina e lasciano i protagonisti senza più una loro precisa definizione, osmotici con l’ambiente, in attesa di una dissoluzione o di una nuova configurazione.

Non vogliamo qui scomodare Merleau-Ponty e la sua fenomenologia della percezione, che intreccia in modo indissolubile l’esterno e l’interno, corpo e intersoggettività, anche se Jemma Nelson così definisce la linea concettuale del lavoro della compagnia: «Penso che la sfida per noi, avendo lavorato per un po’ con la tecnologia, sia come mantenerla organica. Mantenendo l’attenzione sulla vita e su cos’è la vita, e cos’è la sensazione di vivere».
L’iperrealistica scenografia, gli immensi schermi che non lasciano spazi vuoti, la presenza sterminata di camere web (che mi ricordano un poco un’atmosfera voyeuristica da Grande Fratello) rendono bene il senso di una civiltà dominata dall’immagine, dal colore e dalla tecnologia. Alla fine le poche pareti crollano con la contempora- nea dissoluzione delle relazioni tra i protagonisti. Resta la domanda irrisolta, ossia se per ogni corpo umano di natura animale non ne debba sorgere un altro di natura digitalizzata. L’ipervisione e la tecnologia spinta, che interviene sul corpo, possono ridare vita all’umanità o ne rappresentano la condanna finale?

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