Difetto d’identità

Uno sguardo dentro la Mostra di Adriano Pedrosa/1
di Lucio Salvatore

Con una produzione artistica fin troppo aperta e pluralista, Foreigners Everywhere sembra voler correggere un difetto atavico di identità, contribuendo ad un’operazione di decolonizzazione culturale in atto da tempo a livello globale e che ricorda quanto tentato a livello nazionale (non riuscendoci però fino in fondo) dal Padiglione Italia nel 2011.

Nel 2011 il Padiglione Italia della 54. Biennale Arte di Venezia, intitolato L’Arte non è Cosa Nostra, metteva in discussione la gerarchia di valori del sistema ‘mafioso’ dell’arte e la stessa figura del curatore della Biennale, che con le sue personali decisioni influenzerebbe la percezione globale sullo stato dell’arte contemporanea e le sue tendenze. In polemica con questo accentramento di potere, la scelta curatoriale fu di polverizzare i centri decisionali e coinvolgere 275 ‘intellettuali’ chiamati a selezionare altrettanti artisti. Il mio personale ricordo della visita fu quello di un padiglione simile ad un magazzino di opere destinate alla televendita e sconfortante fu vedere i lavori presentati soffocare sotto l’ombra di un progetto politico di vertiginosa mappatura del territorio che, per far contenti molti, svalorizzava tutti. Il tentativo di quel padiglione di correggere un difetto di identità, l’appartenenza o meno ad una determinata cricca, di presentare una produzione culturale più aperta e pluralista, una sorta di decolonialismo interno alla cultura italiana, a posteriori ed alla luce degli eventi degli ultimi dieci anni sembra essere stato precursore a livello nazionale dell’importante movimento di respiro internazionale che ha spinto i musei ad integrare le proprie collezioni con opere di artisti discendenti da culture e contesti non rappresentati al fine di correggere una realtà storica percepita come risultato di pregiudizi e strutturalmente ingiusta. La mia sensazione è che Adriano Pedrosa abbia fatto sua questa tendenza rinunciando ad offrire una sua visione sullo stato dell’arte contemporanea, come è atteso da un curatore della Biennale di Venezia, concentrando gli sforzi narrativi per inscrivere il suo nome nella storia della Biennale come colui che l’ha corretta denunciandone l’eurocentrismo colpevole di aver snobbato artisti di valore, soprattutto modernisti, ignorati perché non occidentali. Per ricordare questo dato storico, in ogni biografia degli artisti in mostra viene puntualmente ricordato, quando è il caso, il fatto che l’opera è “esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia”. Rispetto all’esperienza italiana la mostra di Pedrosa non si definisce per un’equivalente e caotica pluralità di voci, distinguendosi per l’eleganza dell’allestimento che magistralmente ha reso godibile una pinacoteca così ricca di opere raccolte sotto il titolo Stranieri Ovunque, sicuramente la scelta più riuscita e il messaggio più potente di questa 60. Biennale Arte.

Rosa Elena Curruchich, Padiglione Centrale, Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Matteo de Mayda

L’efficacia di questa combinazione di parole apre a cammini interpretativi e significati diversi, a un luogo di incontri, punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo. La forza del titolo risalta tuttavia la corrispondente debolezza della narrativa costruitale intorno, vuota di contenuti che corrispondano ai propositi dichiarati. Emblematico è il gesto della doppia appropriazione che gli artisti Claire Fontaine ed il curatore Pedrosa celebrano e che manca fino ad oggi del coinvolgimento del collettivo anarchico torinese stesso, autore del titolo. La doppia appropriazione risulta essere un’operazione che prende dai subalterni, gli autori sconosciuti al pubblico che rimangono tali, senza un tentativo di restituire loro visibilità e rilevanza. Mentre Claire Fontaine non va oltre la forza delle parole appropriate, svuotandole anzi di potenza nel linguaggio ormai alienato del neon colorato, lo sguardo rivolto al passato di Pedrosa crea un’assenza ingombrante, il compromesso con il presente in cui viviamo, dove i 127 milioni di rifugiati, raddoppiati negli ultimi dieci anni, vengono radicalmente ignorati nella mostra nonostante siano al centro della sua retorica. Queste imperdonabili assenze, tuttavia, non diminuiscono l’importanza di questa mostra, necessaria a mio avviso più per la possibilità offerta al pubblico europeo di emanciparsi dalle proprie aspettative che per l’opportunità offerta agli artisti presentati di essere celebrati nel tempio dell’arte occidentale. La ridiscussione dei valori di un’arte contemporanea più inclusiva e la sua apertura a culture diverse è stato uno sforzo costante del ciclo di Biennali dell’era Baratta. In Palazzo Enciclopedico, per esempio, il fascino delle opere di Hilma af Klint oltre all’incanto in sé esercitato sul pubblico, hanno riscritto la storia dell’origine della pittura astratta occidentale precedentemente attribuita, per un pregiudizio di genere, a Kandinsky. La struggente ossessione visionaria di Arthur Bispo do Rosario, artista immenso rinchiuso per anni nella doppia prigione dello stigma della malattia mentale, mostrava come l’intenzionalità nel processo creativo fosse stata storicamente definita in maniera riduttivistica e miope da curatori, teorici e giudici dell’arte occidentale. Questi esempi significativi del cambiamento in corso in una prospettiva aperta sono emersi e si sono espressi sempre nel perimetro di un centro che ha concesso sì spazio alle proposte provenienti dalle periferie, ma immancabilmente valorizzandone i linguaggi in quanto compatibili con la piattaforma dell’arte contemporanea, il cui controllo è rimasto centralizzato nella fase di espansione geopolitica e finanziaria.

Rosa Elena Curruchich, Padiglione Centrale, Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Matteo de Mayda

Diverso il caso di questa Biennale curata da Adriano Pedrosa, la quale sfida direttamente sul piano ideologico l’egemonia culturale dell’arte contemporanea così com’è stata definita in Occidente, mettendo in discussione i suoi pregiudizi storici, i canoni universalisti che ne sono derivati, che in Stranieri Ovunque sono stati destituiti con grande decisione senza complessi, con l’arroganza necessaria per portare avanti una simile operazione. La rete di fondazioni, istituzioni, gallerie e collezionisti coinvolti a supporto del progetto del curatore brasiliano ha raggiunto un peso economico ed ideologico tale che non ha avuto bisogno del consenso e la benedizione del centro. Il sistema culturale eurocentrico, minacciato da un’emancipazione del Sud conquistata e non concessagli dall’alto, reagisce con la critica e la schiera dei suoi opinionisti, ancora legati alle gerarchie del loro piccolo mondo antico, che tentano di stigmatizzare la mostra definendola “folklorica”. Eppure, al di là della sua specifica cifra curatoriale, l’esistenza in sé e per sé della mostra Stranieri Ovunque restituisce in maniera eclatante con un repertorio alternativo un orizzonte indubitabilmente nuovo costituito da canoni e sistemi di valori altri. Attraversare l’Arsenale ed essere catturati dalle miniature di Rosa Elena Curruchich è un’esperienza che non ha bisogno di essere giudicata secondo i gusti dei membri di un club privato esclusivo e a numero chiuso; ha una dimensione propria che ha la stessa rilevanza dell’incontro con l’opera di Robert Rauschenberg, che a partire da un privilegio geopolitico è fiorita. Necessaria è la denuncia del sistema di attribuzione di valore nelle narrative della storia dell’arte contemporanea così come finora è stata raccontata, legato al potere di chi le ha raccontate, creato da pochi per pochi, oligarchie con conflitti di interesse enormi. La speranza oggi è che questo riequilibrio in senso orizzontale non si riveli solamente una nuova breve avventura antropofagica di un mercato che ha sempre bisogno di novità e cambiamento, di rinnovate ideologie che giustifichino nuove sacche di speculazione.

Immagine in evidenza: Rosa Elena Curruchich, Padiglione Centrale
Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Matteo de Mayda

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