Universo universale

Incontro con l'artista Hassan Hajjaj in mostra alla 193Gallery
di Mariachiara Marzari
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Hassan Hajjaj (1961, Larache, Marocco; vive e lavora tra Marrakech e Londra), attraverso la fotografia, l’estetica della moda, la musica, il cinema e il design celebra la cultura visiva popolare del suk, uno spazio sociale simbolo di interazioni e scambi.

L’artista prende in prestito dalla cultura marocchina stereotipi pittorici assemblandoli poi audacemente con elementi occidentali per creare un “universo universale”. Hassan, infatti, celebra ciò che ci accomuna come esseri viventi ma anche le nostre differenze, che sono la nostra ricchezza. Le sue installazioni fotografiche, in mostra alla 193Gallery alle Zattere – galleria parigina molto cool, presente in Laguna in occasione della Biennale –, sono ritratti vividi, esplosioni di colori, pattern, loghi di marca e oggetti trovati a contrasto, passati e super contemporanei, senza limiti, senza confini visivi e culturali. I bordi delle sue immagini sono cornici-sculture decorate con prodotti dei mercati arabi, che rendono omaggio ai motivi tipici dell’arte marocchina: dalle scatolette di olive o pomodori alle lattine e alle scatole da tè, un originale riferimento naturalmente alla pop art. Al centro di ogni immagine si trova una persona reale che ha ispirato Hajjaj, in posa dinamica con abiti rumorosi e sfondi a motivi geometrici. Ogni soggetto sembra pronto a prendere vita.
Segni, simboli e persone da tutto il mondo si incontrano nelle sue fotografie fuori da ogni idea gerarchica, senza traccia alcuna della presunta superiorità di una visione eurocentrica del mondo.

Qual è stato il suo percorso artistico?
Sono nato in Marocco e lì sono cresciuto fino all’età di 13 anni, quando mi sono poi trasferito a Londra. Ho dovuto ricominciare a costruirmi una dimensione di vita e di relazioni in un altro paese e in un’altra cultura, con persone nuove e una nuova lingua. Quando ho finito la scuola a 15 anni sono rimasto disoccupato per circa 6 anni, provando a fare diversi lavori. Poi ho cominciato a organizzare feste underground e in seguito ho aperto una piccola boutique nel 1994. In questo negozio mi sono avvicinato all’arte, alla moda e alla musica: ho incontrato fotografi, video-makers, chef, musicisti e ho sviluppato le mie personali passioni. Ero creativo, sì, ma a modo mio, senza troppi canoni da seguire. Quando organizzavo le feste, per esempio, sceglievo un locale vuoto che decoravo per far star bene la gente. Ho imparato a produrre e a promuovere contenuti di intrattenimento culturale. Questo è stato il mio processo d’apprendimento. È stato un lungo viaggio. Intorno alla metà degli anni ‘80 ho cominciato a fare foto semplicemente perché mi piaceva, non perché volevo perseguire un percorso artistico. Da quel momento in avanti è stato un viaggio completamente diverso. Ho incontrato una persona molto importante per la mia carriera, una curatrice, che è stata la persona che ha seriamente “guardato” il mio lavoro, introducendomi nel mondo dell’arte.

Hassan Hajjaj, Gang of Marrakesh, 2000

Ne è soddisfatto?
Sono molto soddisfatto perché non ho aspettative. Anche quando ho cominciato ad “essere un artista” non pensavo che nel mio viaggio sarebbe successo ciò che è realmente successo. Persone stupende, esperienze e viaggi incredibili… Tuttavia non devo dimenticare che non si è mai arrivati, perché tutto cambia e anche tu devi essere pronto a cambiare. Ho realizzato documentari, ho disegnato magliette, sono sempre impegnato in nuovi progetti, grandi o piccoli che siano. Non so cosa farò in futuro, ma fino a quando mi renderà felice fotografare, continuerò a farlo. Mi va di pensare che quando il cambiamento arriverà io sarò pronto a dare una mia personale risposta in quel preciso momento. Ora va tutto molto in fretta, più di quanto sia mai successo prima.

Nelle sue opere la cultura pop e il patrimonio culturale del Marocco si fondono in un risultato sorprendente. Come definirebbe le sue installazioni visive?
Sono marocchino, quindi nordafricano, e ho vissuto a Londra, che considero casa mia quanto gli altri posti dove ho vissuto. Londra mi ha fatto conoscere molte cose del mondo, molti diversi tipi di persone, molte culture. Quando lavoro con la mia arte lo faccio tenendo conto dell’ambiente in cui mi trovo, che è quindi africano, nordafricano, caraibico, londinese, inglese, cosmopolita. Tutto questo caleidoscopico mix esperienziale credo venga fortemente restituito nel mio lavoro. Non è qualcosa a cui penso, non sto lì a capire se sto facendo più arte africana che europea, londinese, o quant’altro. La mia arte fa parte del mio viaggio, dei luoghi e delle persone che fermo con le mie istantanee: è un documentare.

Quale lato, quale angolazione dell’umanità vuole rappresentare nei suoi ritratti?
Penso, senza voler fare l’eroe, che la mia disposizione sia essenzialmente quella di cercare di catturare nella maniera più autentica possibile l’anima della persona in una foto. L’idea è di far sì che siano loro a parlare con il pubblico, io sono solo il tramite che scatta la foto. Se i soggetti riescono a trasmettere umanità, in qualsiasi accezione, sia essa politica, religiosa, di immagine, allora il mio obiettivo è centrato.
Allo stesso modo cerco anche di catturare il tempo in cui viviamo. Gang of Marrakech (2000) ne è un esempio: un viaggio in una foto. Quello che indossano le persone ritratte nella foto è un tessuto mimetico che ho comprato a New York, mentre il tessuto a pois l’ho preso a Londra; entrambi sono stati poi confezionati a Marrakech. Quindi in questa foto vedo anche un mio personale viaggio, un processo che mi ha portato fin lì. La cornice è l’ultima cosa, la aggiungo sempre dopo; prima viene l’immagine e solo dopo viene il lavoro sulla cornice, che deve essere in armonia con la persona ritratta nella foto.

Fotografo, interior designer e fashion designer; ora sta sperimentando anche con la musica. Come vede e sente oggi l’arte contemporanea?
La vedo cambiare, l’arte contemporanea è come il mare quando sei nel mare, l’esperienza cambia in base a quale mare navighi: Mediterraneo, Caraibico o Atlantico. L’arte contemporanea è diventata molto popolare e con la popolarità arte bella e arte brutta coesistono inevitabilmente. Oggi l’arte è cambiata perché un artista può essere musicista, pittore e fare riprese al contempo ed essere accettato come tale, mentre prima dovevi essere una cosa sola e non venivi considerato in nessun altro campo. Virgil Abloh ha lavorato con Louis Vuitton portando la sua arte nella moda, per poi farne della musica: è un cerchio.