La mostra prende il nome da un’antica parabola che narra di un gruppo di ciechi che non si sono mai imbattuti in un elefante e che, toccandolo, immaginano l’aspetto dell’animale. Allo stesso modo Chiara Capellini, cercando di trovare una spiegazione all’immaginazione, dipinge opere che non rappresentano nulla, che non ricercano il figurativo focalizzandosi su azioni come mettere e togliere colore, in un atto pittorico il cui risultato è una sorta di forma di meditazione sul vuoto, in bilico tra arte e spiritualità.