Corrispondenze

Uno sguardo dentro la Mostra di Adriano Pedrosa/2
di Lucio Salvatore

La visita al Padiglione nazionale “Hãhãwpuá” è un’emozione, un esempio di de-identificazione dal concetto stesso di nazione a partire dal suo nome, Brasile, che è stato sostituito dai curatori con un atto radicale istituzionalmente e necessario storicamente in epoca di fondamentalismi identitari.

Nella seconda sala, mentre leggo dell’impegno dell’artista in mostra Glicéria Tupinambá per la restituzione del manto Tupinambá dal National Museet di Copenhagen, mi ritorna in mente l’espressione misteriosa Kalaallit Nunaat sovrapposta a Denmark, che avevo notato e non decifrato pochi minuti prima sulle pareti a mattoncini del Padiglione Danese, un altro gesto di de-identificazione nazionalista che stabilisce una doppia corrispondenza tra padiglioni e movimenti indigeni, tra Polo Nord e Tropico del Capricorno che, nel cuore della Biennale di Venezia, danno una scossa alle fondamenta delle categorie nazionali ridisegnandone i confini.

Pochi metri e un’altra corrispondenza, questa volta di segno opposto, tra il Padiglione Austriaco e quello Serbo, tra le Prove del Lago dei Cigni di Anna Jermolaewa, un progetto creato in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva, e l’Exposition coloniale di Aleksandar Denić. La messa in scena del balletto di Čajkovskij, mandato in onda in Unione Sovietica come forma di intrattenimento per oscurare crisi politiche e proteste di piazza, è una performance antimperialista che vuole prepararci a un’auspicata caduta del regime russo. La scelta del Ministero della Cultura Austriaco è un segnale politico chiaro che si distacca dalle posizioni di governi a volte troppo accondiscendenti verso le aggressioni del Cremlino e da quelle della società civile, informate da sentimenti spesso conflittuali sul tema. A pochi passi, l’installazione scenografica di Denić del Padiglione Serbo restituisce un clima politico opposto: immediatamente insospettito dalla retorica a mio avviso scaduta del titolo, mi sono trovato di fronte all’enorme insegna Europa posta di spalle al pubblico, in castigo, sul lato destro della sala principale, a ricordare la decadenza della narrativa europeista. Il Padiglione ricalca la linea anti-europea dei circoli artistici e intellettuali decoloniali, in fila a celebrarne l’inaugurazione, che ho percepito, detto con tutta onestà e pochi dubbi, come pura propaganda di Stato, aggravata dalla sua adesione al concentrico attacco russo sul piano culturale e mediatico contro l’idea stessa di Europa, le sue istituzioni socialdemocratiche liberali, intensificato a seguito dell’aggressione all’Ucraina. L’installazione ricorda l’attitudine del governo serbo a dir poco ambigua circa la propria adesione all’Europa, aggressiva con il vicino Kosovo, espressione di un’ideologia identitaria cristiano-ortodossa sempre più reazionaria. L’artista nel comunicato stampa si dichiara, nonostante la carriera di successo e il riconoscimento in patria, “sfollato permanentemente” proprio nel cuore della disprezzata Europa, dove ha scelto di vivere e lavorare.

Per non regalare più tempo alla propaganda, esco dopo pochi minuti da un clima politico generale inevitabilmente ad alta tensione, che svanisce attraversando la mostra principale, Stranieri Ovunque, la cui presenza alla Biennale di Venezia è stata presentata come una conquista del Sud globale, una categoria geopolitica prima che culturale. Nei mesi che hanno preceduto l’inaugurazione, il curatore ha ribadito in ogni possibile occasione la portata storica e politica rivoluzionaria della sua mostra, ossessivamente definita provocatrice. L’insistente sottolineatura della rilevanza politica di Stranieri Ovunque, con un lavoro incalzante di comunicazione a riguardo, è stata parte di un meticoloso percorso che ha guardato sin dall’inizio con grande attenzione all’eredità mediatica che avrebbe dovuto lasciare la mostra e insieme al registro storiografico della Biennale. Ma l’esperienza del pubblico, che è stata presupposta come inevitabilmente identificata con la visione del curatore, non è prevedibile e la sua libertà di sentire e immaginare a prescindere dalle intenzioni curatoriali non è controllabile. Personalmente ho percepito una decisa incongruenza tra il dettato politico programmatico dichiarato rivoluzionario e la mostra, che a me è risultata svuotata proprio del suo potenziale politico. La presunta provocazione si rivela un’innocua riassicurazione. Stranieri Ovunque è infatti una mostra garbata, pensata e realizzata per entità istituzionali conservatrici, che si fa certamente portavoce di un movimento di importanza storica nel segno del riequilibrio e del riavvicinamento di linguaggi e culture marginalizzate dalle forze coloniali, tuttavia silenziando di fatto qualsiasi forma di denuncia delle conseguenze sociali, ecologiche, economiche nefaste e soprattutto delle sofferenze causate ai popoli oppressi dai colonizzatori, invisibili nelle opere selezionate. E così nel Nucleo Contemporaneo la ‘categoria’ dei popoli indigeni, stranieri nella propria terra, è rappresentata da opere liriche scelte in corrispondenza delle aspettative del mercato dell’arte e dei suoi mecenati.

Senza richiamare la storia del genocidio che avrebbe potuto riempire il Nucleo Storico, sull’Amazzonia contemporanea non c’è nessun riferimento al pericolo esistenziale rappresentato dalla deforestazione di terre indigene per la produzione agricola e di legname in parte destinato al mercato europeo, dalle invasioni di cercatori d’oro, dalla costruzioni di nuove autostrade transamazzoniche, dalla minaccia alla demarcazione delle terre indigene garantita dalla costituzione brasiliana e recentemente messa in discussione ingiustamente dal Congresso Nazionale. Una tale disconnessione dalla tragicità della realtà è sintetizzata dall’opera simbolo di Claire Fontaine, Stranieri Ovunque, sculture in neon che secondo le dichiarazioni degli artisti fanno riferimento alla crisi e alla condizione dei milioni di rifugiati e che invece si presentano sterilizzate proprio da questa condizione. Un approccio all’opera d’arte opposto rispetto a quella di Barca Nostra di Christoph Büchel, un’opera che ha toccato lo stesso tema ed è stata esposta nello stesso luogo in occasione della 58. Biennale Arte di Ralph Rugoff, dal titolo May You Live in Interesting Times, un monumento che portò a segno un gancio allo stomaco che fummo tutt* costretti ad incassare. La scelta del Nucleo Storico Modernista è di per sé indicativa a livello politico dello scarto tra le intenzioni dichiarate e l’efficacia reale delle scelte operate da Pedrosa. Invece di portare alla luce opere e artisti condannati all’invisibilità o marginalizzati dalle oligarchie culturali, il curatore adotta come suo orizzonte di riferimento la storia della Biennale di Venezia e in particolare l’epoca modernista, individuando una possibilità di correzione storica di stampo museale, nonostante la Biennale non sia un museo e non abbia una collezione da riequilibrare. Inscrivere nella storia della Biennale di Venezia artisti già celebrati regionalmente per consegnare loro un attestato di partecipazione quale consacrazione di una carriera: questa pare essere la scelta di fondo del curatore, preferita a un’idea più radicale di coinvolgimento effettivo di artisti esclusi e senza riconoscimento istituzionale o storiografico, regionale o internazionale che sia.

La scelta di opere moderniste inoltre, già storicizzate regionalmente, valorizzate istituzionalmente e dal mercato, è direttamente figlia del canone europeo che dunque è dichiaratamente prediletto rispetto a qualsiasi altro, a partire da quello definitosi nel tempo attraverso un radicamento storico nei territori delle provincie, lontane dai circoli intellettuali delle grandi città del Sud globale, principali vittime del colonialismo. In conclusione, l’occasione di emancipazione e riscatto è andata ahinoi perduta. Proseguendo il cammino tra i padiglioni, ci imbattiamo nella coraggiosa e ammirevole non apertura di Ruth Patir, capace di dare un segnale di risposta all’emorragia culturale degli ultimi anni, all’involuzione reazionaria del governo Netanyahu. Le potenze coloniali ottocentesche, su tutte Inghilterra, Francia e Paesi Bassi, cercano invece nuovi sentieri che valorizzino le culture in passato colonizzate e disprezzate e dalle quali hanno dovuto necessariamente incominciare ad imparare per non decadere nelle entropie culturali identitarie. La presenza italiana, a partire dal Padiglione nazionale stesso all’Arsenale, di fatto ignora la necessità di questa apertura, di questa presa di coscienza delle responsabilità collettive sul passato coloniale: il sistema-arte non indica la strada e si rifugia in una meditazione lirica atemporale. L’eccezione è la preziosa opera-documentario Anatomia di un’amicizia di Alessandra Ferrini esposta nella mostra di Pedrosa in un sottopassaggio del Padiglione Centrale, dove giganteggia la figura del combattente della resistenza libica Omar al-Mukhtar, giustiziato dalle forze italiane dopo un’eroica resistenza all’invasore. La Russia, al centro della coreografia di alleanze del Sud globale, ospita l’elegante mostra della Bolivia plurinazionale, che con l’idea di superare il concetto di nazione, ne rafforza il peso, moltiplicandone il formato, auspicando il superamento «degli sconvolgimenti prodotti dal colonialismo attraverso la comprensione della storia e l’uso saggio delle lezioni che essa impartisce». Un auspicio che, nella “buona” tradizione intellettuale decoloniale contemporanea, vale per gli altri ma non per sé stessi, essendo ospiti di una potenza imperiale attualmente impegnata in una sanguinosa guerra espansionistica in Ucraina.

Trovatomi nuovamente al cospetto dell’inizialmente odiata Exposicion coloniale di Denić, approfittando dell’assenza di pubblico, inizio a circolare nelle sue camerette puzzolenti di muffa, improvvisamente attratto dai colori consumati dal tempo e dalla magia del jukebox che suona la musica Europa interpretata da Boki Milosević, interrotta dallo squillo a cadenza regolare della cabina telefonica adiacente. All’improvviso vengo catturato da un canto di sirene, un’incantevole melodia che ascoltavo da bambino con un testo che, per ragioni anagrafiche, all’epoca non comprendevo:

«Vorrei comprare al mondo
una Coca Cola
per fargli compagnia

questo è ciò che è reale
tutto quello che il mondo oggi desidera

Una Coca Cola»

In arte e nella propaganda l’esecuzione è più importante delle intenzioni e il capolavoro ha un potere simbolico irresistibile che riesce a sopraffare la realtà; seduttore, avvolgente e pericoloso, ad esso è impossibile rimanere indifferenti, motivo per cui è così caro al potere, così fondamentale per la politica.

Immagine in evidenza: SERBIA, Exposition coloniale – Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Matteo de Mayda

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