Il carcere femminile di Venezia scelto come luogo di incontro, la voce delle detenute come unica guida tra gli spazi.
In un angolo sorprendente di mondo, artisti e detenute uniscono le forze espressive per un’insolita collaborazione, la realtà penitenziaria e l’illimitata visione artistica si incontrano e si seducono con gli occhi a fare da soli testimoni per la memoria, per il divieto assoluto di portare apparecchiature elettroniche all’interno della Casa di reclusione femminile della Giudecca. La mostra Con i miei occhi, titolo della Partecipazione Nazionale della Santa Sede alla 60. Biennale Arte, di per sé già eccezionale, ospitata in un luogo davvero inedito, ha un ulteriore elemento esclusivo: la visita del Pontefice, prima volta in assoluto nella storia della Biennale. «Quando ho mostrato a Papa Francesco il progetto del Padiglione della Santa Sede per la Biennale di Venezia, mi ha risposto: Andrò anche io con i miei occhi» ha rivelato il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede e commissario del Padiglione. Un carcere femminile scelto come luogo di incontro, la voce delle detenute come unica guida tra gli spazi, la negazione di ogni presenza elettronica durante la visita, una curatela che unisce abilmente sacro e profano, liturgia e culto pop, installazione e suggestione, sono gli ingredienti di un’indagine visiva e spirituale che sin dalla presentazione ha suscitato grande interesse. Curato da Chiara Parisi, direttrice del Centre Pompidou-Metz, e Bruno Racine, direttore di Palazzo Grassi – Punta della Dogana, il Padiglione si ispira a un frammento di poesia che riprende un antico testo sacro e una poesia elisabettiana.
Gli artisti chiamati sono Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, l’unica non vivente, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret. Il Padiglione è dedicato al tema dei diritti umani e alla figura degli ultimi, locatari di mondi marginalizzati, dove i nostri occhi raramente arrivano. Si cerca di favorire la costruzione di una cultura dell’incontro, perno centrale del Magistero di Papa Francesco. Da questo desiderio nascono intrecci di storie che spesso possono sembrare a noi estranee, ma che in realtà riguardano tutti, perché raccontano la stessa fame di amore, lo stesso desiderio di vita, di affetto, la stessa inquietudine di senso, tutto quello che l’arte, da sempre, cerca di riflettere e rappresentare. La curatrice, Chiara Parisi, racconta: «La risposta delle detenute è stata immediata e appassionata, va ribadito che loro non cedono i loro spazi fisici per permettere lo svolgimento della manifestazione, ma partecipano in modo attivo, guidando i visitatori alla scoperta delle opere. Gli artisti, allo stesso modo, ci hanno travolto con proposte ed entusiasmo, creando tra tutti una relazione di grande fiducia, con l’idea di affidarsi gli uni agli altri in un grande unitario progetto gioioso». Bruno Racine, l’altro curatore, parte da una domanda che cerca risposta: «Come si può interpretare oggi il concetto di “padiglione nazionale” storicamente tramandato? La peculiarità della Santa Sede, uno Stato singolare, privo di una scena artistica nazionale, ci ha spinto a sperimentare una formula nuova. La Casa di reclusione femminile della Giudecca è stata la risposta. La scelta del luogo, dunque, è un manifesto, uno statement. Artisti di varie origini e senza distinzioni di fede si uniscono in questo luogo per testimoniare un messaggio universale di inclusione, collaborando strettamente con le detenute e arricchendo il progetto con il loro lavoro artistico e relazionale».