Nonostante la mostra collettiva del Padiglione zimbabwese sia incentrata sul «concetto di kududunuka: un’esplorazione delle idee che indicano il disfacimento del mondo», le opere presenti mostrano un’attitudine positiva, pratica ed efficace.
Venezia è attraversata da storie di viaggiatori che per secoli l’hanno navigata, echi sovrapposti di generazioni sempre in transito tra est, sud est, ovest. Ogni calle, a seconda dell’ora del giorno e della stagione, ha un potenziale nascosto, un richiamo per il passante forestiero che viene dal canale adiacente. La fortuna è essere intercettati da queste interferenze e seguirle fin dove si riesce a sentirle. È così, per caso, che sono finito nel cortile di Santa Maria della Pietà, dove ha attirato la mia attenzione una costruzione di spesse mura di paglia che circondano una palma naturalizzata veneziana. A lato di questa installazione, un nuovo viaggio inaspettato è cominciato. Dopo aver visitato la bella mostra del fotografo Peter Hujar, Portraits in life and Death – meravigliosa la foto di Susan Sontag –, ho proseguito verso il Padiglione dello Zimbabwe, al secondo piano del palazzo in un ambiente completamente diverso. La Biennale è sempre ricca di tesori arrivati da tutto il mondo, artisti che portano con sé i talismani della loro cultura, trovando in Laguna un piano nobile, un prezioso giardino ai più sconosciuto, dove sentirsi a casa per la stagione. L’accoglienza dello Zimbabwe mi ricorda come essa sia un tratto culturale importante e spesso trascurato in molti padiglioni. All’entrata mi dà il benvenuto un giovane Zimbabwese molto preparato, energico, sempre presente nella conversazione, la sensazione è che la stessa onestà e vitalità sia una caratteristica importante di tutti gli artisti in mostra. Nonostante legga su un comunicato stampa che la mostra collettiva, dal titolo Undone, sia incentrata sul «concetto di kududunuka: un’esplorazione delle idee che indicano il disfacimento del mondo», le opere presenti mostrano un’attitudine positiva, pratica ed efficace, che prevale sulle letture curatoriali e i testi che inquadrano opere d’arte dentro categorie ideologiche eurocentriche. L’allestimento è essenziale, fa un grand caldo, all’entrata ci sono lavori di Gillian Rosselli, interessanti le opere realizzate in silicone da Troy Makaza, a seguire ecco Kombo Chapfika, Sekai Machache, Victor Nyakauru, però il vero incontro è con le complesse creazioni di Moffat Takadiwa, che a mio avviso riassumono lo spirito ecologico della mostra e della comunità di riferimento. Opere che affrontano le questioni globali ambientali e di disuguaglianza dal lato opposto della bilancia, con atteggiamento di chi è sempre in grado di trovare soluzioni dove altri rinuncerebbero, un caso riuscito di upcycling, capaci di restituire valore allo scarto, una nobile ed esemplare risposta alle tonnellate di spazzatura scaricate in territorio africano. L’artista utilizza tessuti, cinte, cerniere bottoni raccolti in una fabbrica che processa rifiuti tessili inviati da paesi ricchi, riordinati e affiancati a flessibili armature fatte di spazzolini e soprattutto tasti di computer. Takadiwa si adatta ai gusti e alle aspettative che il pubblico dell’arte ha maturato nei confronti dell’Africa, a partire da artisti di successo come El Anatsui e più recentemente Serge Clottey e, nel contesto sociale dei nostri giorni, il suo gesto creativo mi rimanda a quello di tanti italo-africani, giovani che l’immondizia non la selezionano nelle discariche africane, ma la raccolgono nelle discariche delle nostre città, che vivono, quando sono fortunati, in maniera integratamene subalterna. Condividono il lato povero di una vita italiana, lavorano e raccolgono dappertutto tutto ciò che possano valorizzare, rinunciando ad ogni conforto che avrebbero guadagnato con la fatica, per pagare containers pieni degli scarti che qualche conforto possono darlo ai loro cari, in quella lontana Africa, che è dentro di noi.