La cerimonia performativa di Ziel Karapotó e Olinda Tupinambá ai Giardini ha evocato il potere della guarigione ancestrale sfidando l’eredità coloniale.
Un presente sacro, la cerimonia performativa di Ziel Karapotó e Olinda Tupinambá: Venerdì Santo, 19 aprile 2024, durante la vernice della 60. Biennale Arte, ai Giardini, nello spazio adiacente al Padiglione modernista progettato dall’architetto Mindlín, il sole è alto, i corpi seminudi si muovono in corrispondenza aleatoria intorno a un cerchio; Olinda dipinta di rosso soffia sul fumo espirato da Ziel, che spezza le pallottole degli invasori. Si evoca la cura, soprattutto per gli sguardi curiosi del pubblico concentratissimo sulla registrazione mediatica dell’evento. L’aria è quella dei tempi in cui l’opera d’arte non era un semplice oggetto di contemplazione e collezionismo, bensì un dispositivo di connessione con il Divino. Gli spiriti sono scesi, nessuno è più lo stesso, la magia trasformatrice dell’arte dei Pajé del territorio Hãhãwpuá ci ricorda come la loro cultura antica sia ancora incompresa dalla stragrande maggioranza, discendente dai conquistatori, per secoli oppressi dalle dottrine rivelate che si sono sentiti minacciati dai corpi vivi e senza colpa di coloro che avrebbero violentato ed espropriato. Ho la forte sensazione che di quel luogo, nel cuore dei Giardini della Biennale, in quel magnifico spazio di scambio culturale che Venezia offre al mondo, non siano ospiti ma legittimi regnanti, loro per tutti i popoli indigeni che lottano per il riconoscimento del diritto ad esistere e prosperare sulla terra. E l’esposizione intitolata Ka’a Pûera: noi siamo uccelli che camminano ci mostra un cammino possibile di superamento del trauma del genocidio commesso dagli europei, le condizioni del perdono che passa attraverso la restituzione di capitale simbolico ed economico, il riconoscimento e la protezione delle terre e delle risorse, e soprattutto la lotta senza quartiere alle ideologie suprematiste che vanno estirpate ovunque siano. E così i rappresentanti dei popoli Tupinambá, Wapichana, Baniwa, Pataxó, per tutti gli altri 300 popoli indigeni in territorio Hãhãwpuá, sono invitati ad occupare lo spazio che è sempre stato loro. Curatori e artisti, emancipati da una grande consapevolezza dell’importanza culturale e politica del movimento indigeno, sanno benissimo l’importanza di iscrivere le loro istanze nella piattaforma dell’arte contemporanea antropofagica d’invenzione Europea, cassa di risonanza rilevante per la resistenza indigena. Così il mantello Tupinanbá, oggetto sacro diventato reliquia, si è trasformato con Glicéria, artista in mostra, in opera d’arte contemporanea e strumento per una richiesta di restituzione degli undici esemplari conservati in istituzioni museali internazionali. Per qualche istante durante l’inaugurazione è sembrato che le istituzioni organizzatrici del Padiglione, la Fondazione Bienal de São Paulo, con il suo consiglio onnipresente e il Ministero degli Esteri con il corpo diplomatico dell’Ambasciata, fossero state rimpiazzate dagli ospiti Tupinambá, Wapichana, Baniwa, Pataxó e tutto è parso naturale e giusto. Un piccolo momento nel cammino di redenzione per la salvezza di un territorio che molti, ma non tutti chiamano Brasile.