Nuovi inizi

Il nuovo film di Mehdi Barsaoui, una riflessione sull'identità attraverso l'emancipazione di una donna
di Delphine Trouillard
  • giovedì, 5 settembre 2024

Dopo il debutto in Orizzonti nel 2019 con il premiato Un fils, Mehdi Barsaoui torna in gara a Venezia con Aïcha, una storia di libertà ed emancipazione femminile estrema, che porta ad una necessaria riflessione sulla questione identitaria.

Mehdi Barsaoui è un regista e sceneggiatore tunisino, noto per il suo acuto sguardo sul tessuto sociale e culturale del proprio Paese. Nato nel 1984 a Tunisi, ha realizzato diversi cortometraggi prima di presentare il suo primo lungometraggio, Un fils, nel 2019. Il film ha ottenuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui premi alla Mostra del Cinema di Venezia e al Festival di Marrakech. Aïcha, in Orizzonti, conferma la sua capacità di esplorare temi complessi e attuali attraverso una narrazione potente e coinvolgente.

In Aïcha, come in Un fils, la questione dell’identità è centrale. Cosa la spinge a esplorare questa tematica?
Nei miei film cerco semplicemente di mostrare la situazione attuale del mondo arabo, in particolare della Tunisia, e di capire cosa ci rende ciò che siamo. La Tunisia è un crocevia culturale e, come spesso accade in questo tipo di melting pot, la questione dell’identità diventa inevitabile. La primavera araba del 2011 e il desiderio di libertà ed emancipazione che ha suscitato hanno reso la questione identitaria ancora più pressante. È anche un film sull’emancipazione, in particolare sulla liberazione dal peso sociale, religioso e familiare che grava sulle spalle di una donna.

Nei suoi film lei affronta temi universali come la libertà individuale e il peso delle tradizioni. Che impatto spera che Aïcha avrà sul pubblico, in Tunisia e a livello internazionale?
La domanda a cui vorrei rispondere è: come possiamo vivere liberi, senza preoccuparci dei pesi che gravano su di noi? Nella nostra cultura araba, ho la sensazione che il peso che portiamo sia più gravoso rispetto al resto del mondo, anche se ammetto di non aver vissuto in altri Paesi, se non per un breve periodo in Italia.
Per liberarsi di questo peso, il personaggio del film decide di affrancarsi da tutto: dal senso di colpa verso i suoi genitori, dal senso di colpa per essere rimasta in vita. Intraprende un viaggio verso la vera liberazione, senza mai cadere nell’egoismo o nell’egocentrismo. Nelle nostre società arabe, alcune figure sono sacralizzate, come i genitori, che occupano una posizione dominante nella gerarchia familiare.
Nella religione, lo status del padre e della madre è così importante che si dice addirittura che chi non ottiene la benedizione dei propri genitori non avrà un posto in Paradiso. Ciò che il mio personaggio infligge ai suoi genitori, ovvero la sua morte, è l’atto più terribile per un padre o una madre e rappresenta un atto di ribellione incommensurabile. In vita, questa donna non ha il coraggio di emanciparsi; lo fa quindi attraverso il simulacro della morte, e questo percorso verso una nuova identità la porta a emanciparsi dai genitori, nella vita. Rinunciare alla propria identità, quella che ci è stata data dai nostri genitori, è il più grande affronto che si possa far loro. Per me era importante rompere con questi precetti prestabiliti, poiché la pressione che sentiamo nel mondo arabo nel cercare costantemente di soddisfare i nostri genitori è troppo grande.

Il personaggio di Aya è al centro del film. Come ha collaborato con l’attrice protagonista per catturare la complessità e la forza di questo personaggio, riflettendo al contempo le sfide che affronta?
Ho avviato il casting a gennaio 2023, in vista delle riprese che sarebbero iniziate a novembre. Insieme al mio direttore del casting, anziché far leggere il copione alle attrici abbiamo proposto loro un esercizio di improvvisazione. La situazione era la seguente: dovevano fingere di essere morte, subire un controllo di polizia e giustificare la loro identità. Questo mi ha permesso di valutare la loro immaginazione, la loro libertà e anche la loro capacità di manipolazione. Di Fatma Sfar ho apprezzato la fragilità e la capacità di immergersi in ogni situazione, di ‘fondersi’ in modo naturale, come un camaleonte che, a seconda del contesto, diventa di volta in volta bello, gentile o tutto l’opposto. Fisicamente è molto lontana da ciò che avevo immaginato durante la scrittura della sceneggiatura, ma con la sua recitazione e la sua grande intelligenza è riuscita a incarnare alla perfezione tutte le sfaccettature di questo personaggio.

Come regista, qual è il messaggio principale che desidera che il pubblico recepisca dopo aver visto i suoi film?
Vorrei risvegliare una sorta di consapevolezza: se smettessimo di occuparci della vita degli altri? E se dessimo agli altri la possibilità di essere liberi? Più in generale, mi piacerebbe che potessimo parlare liberamente di ciò che desideriamo, criticare la politica dello Stato e le istituzioni, e avere i mezzi per farlo. Credo di appartenere a una generazione sacrificata. Tredici anni fa, durante la primavera araba, abbiamo vissuto l’illusione di prospettive molto positive, di un cambiamento di paradigma nel nostro Paese e nel mondo arabo in generale. E poi, all’improvviso, tra attentati, Covid e guerre, la mobilitazione è diminuita e la società è tornata a essere individualista.

Questa è la sua seconda partecipazione nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia. Come vive questo riconoscimento?
Per un regista come me, essere invitato a questo Festival è incredibile. Quando vedo i nomi degli altri registi in selezione mi sento davvero privilegiato e felice di poter dare una tale visibilità al film e renderlo oggetto di discussione. Non vedo l’ora di condividerlo con il pubblico e spero che la Mostra ci porti la stessa fortuna che abbiamo avuto con Un fils.

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