Allontanarsi dalla meta

La rigenerante di-sperazione del Disobedience Archive
di Riccardo Triolo

Attivismo della diaspora e Disobbedienza di genere: all’Arsenale la ricerca di Marco Scotini su Storia e archivi testimonia la necessità del disallinearsi come forma di resistenza.

In questa Biennale di frontiera, spazio liminale che getta lo sguardo e l’esperienza vicinissimo e lontanissimo dall’ordinario, raccogliendo dell’arte contemporanea la sua tensione orizzontale, di vasta ricerca di aperture e contaminazioni in grado di creare approdi insoliti, disordinati, disomogenei, spicca chi ha ragionato con l’idea di uno spazio espositivo plurimo coniugato a un tema fendente e trasversale, come quello dell’estraneità. E se da un lato lo spazio espositivo poliedrico, persino caleidoscopico allestito da Pedrosa non può che rinviare all’idea originaria dell’internazionalismo dell’arte, forzandola oltre i confini nazionali negati a partire dall’appello agli Stranieri Ovunque del titolo, l’ubiquità e la trasversalità che ne derivano non possono non far riflettere sulla pervasività del tessuto connettivo che regge il sistema delle arti: è infatti con l’estensione globale dell’economia capitalistica che questa Biennale si confronta sottotraccia. Ed è così che le opere di gusto vernacolare, peculiare, come manufatti, tessuti, artigianato artistico, entrano nel mercato dell’arte, mostrandosi al mondo; è così che le sottoculture, salendo in superficie, si parificano, perdendo ogni carattere catacombale e sovversivo, per darsi alla nuova normalità, per spalmarsi sul grande arazzo del capitalismo globale. Che ha vinto e trionfa. Pur nella sua contraddittorietà. Che sta appunto nel suo volersi fare spazio, ambiente, culla, cornice.

Ecco, le opere più interessanti di questa biennale neocapitalista sfuggono allo spazio, sconfinano. Diventano suono, quindi relazione dinamica con lo spazio che contempla anche il suo contrario, la dispersione, il silenzio, il vuoto. Come nel polittico dinamico Disobedience Archive curato da Marco Scotini come un dispositivo pre-cinematografico e pre-globalistico, The Zoetrope, che impone una fuga dalla forma, da ogni messa in forma, e dal tempo della fruizione, disegnando una spirale centrifuga su cui si innestano video testimonianze di artisti, che lungo la linea retta che ha segnato l’imporsi dell’egemonia totale capitalistica hanno segnato altrettante disperate vie d’uscita, tentativi di disallineamento. Una poetica conativa resistenziale che forse è il vero fulcro da cui potrebbe scaturire l’intera esposizione. La più politica e contraddittoria di sempre. Diaspore e soggettività nomadi dunque non come espressioni del neocapitalismo, che tutto ammette tranne il suo contraddittorio, ma come espressioni di-sperate e di-speranti, che si allontanano quindi dalla meta (-spa in sanscrito è la meta e la disperazione non è altro che un allontanamento da essa), da ogni meta in un moto perpetuo che impedisce ogni sedimento, ogni fossilizzazione. Il che risponde al lavoro importante di Scotini che da sempre ragiona su Storia e archivi e che traccia l’idea di una Biennale come istituzione costituente e non costituita, sciolta da ogni vincolo tradizionale e aperta a continue rigenerazioni, negando ogni appartenenza monopolistica, sovranista, centralizzata e gerarchica.

Immagine in evidenza: Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Marco Zorzanello

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