Al suo secondo lungometraggio, Frédéric Farrucci presenta in Orizzonti Extra Le Mohican, un western contemporaneo, dal deciso piglio politico.
Possiamo definire The Mohican un hero movie?
Non ho mai pensato al mio film in questi termini. Joseph risponde di no (a persone certamente pericolose) senza spavalderia o giustificazione, o rivendicazione politica. Dice “no” perché dire “sì” significherebbe la fine del suo mondo. La sua situazione, però, è senza speranza. Dopo quel “no” passa la maggior parte del tempo a fuggire, a nascondersi, a difendersi con armi di fortuna. Se è un eroe, non lo è certo nel senso inteso da Omero, per dire. Detto questo, devo ammettere che incarna una forma di resistenza che personalmente ammiro e capisco possa essere considerata in quel modo. Ed è anche vero che sua nipote, che si adopera per dare al gesto di Joseph una dimensione politica, finisce col dargli una certa aura di leggenda.
Tra gli ultimi pastori rimasti sulle coste della Corsica, Joseph vede la sua terra minacciata dai loschi piani di speculazione edilizia della mafia locale. Anche di fronte a minacce e intimidazioni, il pastore sceglie di non cedere ma di reagire con decisione, diventando così...
Sarebbe stato interessante per lei raccontare una storia come questa anche in un’ambientazione diversa? Oppure crede che il suo rapporto con la Corsica non possa essere replicato in nessun altro luogo?
Ho la sensazione che nel creare storie attorno a situazioni e persone intimamente legate ad un luogo, il cinema mi offra l’opportunità di affrontare questioni universali. Di conseguenza, penso di essere più autentico quando parlo di un territorio al quale sono visceralmente legato, un luogo di cui non sono solo spettatore, ma di cui faccio anche parte. Penso che questo mi dia una certa legittimità per uno sguardo critico su una questione politica, e questo mi rende più libero, più intuitivo nel mio lavoro. Questo è strettamente connesso anche al fatto che il film affronta un conflitto territoriale. Sarei più incline a girare fuori dalla Corsica film che avessero meno a che fare con questa dimensione territoriale. Il mio film precedente, ad esempio, è ambientato a Parigi, che per me è un luogo adottivo, all’interno della comunità cinese, che mi era estranea, ma sentivo la necessità di realizzarlo e mi sono sentito, in un certo senso, autorizzato a farlo perché le questioni relative alla migrazione mi toccano profondamente.
Riguardo al cast, come ha modulato l’equilibrio tra attori professionisti e non professionisti? Quali fattori hanno influenzato le sue scelte?
Le mohican è nato da alcuni incontri avvenuti durante la realizzazione di due documentari, uno su un pastore – il personaggio centrale del film – e l’altro su un veterinario di campagna. Gli attori sono stati scelti naturalmente attorno a questa dimensione di vita reale. Il veterinario in questione ha interpretato se stesso. Lo stesso vale per uno dei pastori che si vede nelle scene finali. Per trovare chi interpretasse Joseph, sulle cui spalle sta tutto il film, ho sentito il bisogno di condurre un doppio casting, sia classico che spontaneo, e con la direttrice del casting abbiamo adottato lo stesso approccio per molti altri ruoli. Alexis Manenti, che è un attore professionista e un tipo piuttosto cittadino, ha offerto durante i provini una performance di una precisione e intensità tali da convincermi subito che il mio pastore sarebbe stato lui. La scelta degli altri ruoli è ricaduta sugli interpreti che mi sembravano i più adatti al contesto e al territorio. Ho equilibrato la presenza di attori professionisti e non professionisti a seconda delle scene, cioè pensando e lavorando sul significato e sulla dinamica di ciascuna di esse per tentativi. È stato molto appassionante sforzarsi di distinguere gli attori con cui c’era bisogno di lavorare per costruire il personaggio da quelli con cui era necessario invece mantenere il più possibile la freschezza del reale.