Da oltre vent’anni Wang Bing è uno dei registi di documentari più affermati al mondo. La sua opera si caratterizza, all’interno del gruppo dei grandi documentaristi contemporanei (Frederick Wiseman, Errol Morris, Joshua Oppenheimer, Agnes Varda, ecc.), per una focalizzazione esclusiva dell’interesse del regista sui molteplici aspetti della storia della Repubblica Popolare Cinese. Che l’argomento sia la crisi industriale di un distretto (Il distretto di Tiexi), i campi di rieducazione maoisti degli anni ‘50 (Dead Souls), la vita in un remoto villaggio della provincia dello Yunnan (Three Sisters), la performance del direttore d’orchestra Wang Xilin che, nudo sul palcoscenico di un teatro parigino, rievoca le torture e la prigionia subite durante la Rivoluzione Culturale (Man in Black), la giornaliera routine del lavoro di operai impiegati nei campi di estrazione del petrolio del deserto del Gobi (Crude Oil), gli ultimi dieci giorni di vita di Fang Xiuying malata di Alzheimer (Mrs. Fang), la vita sospesa tra schiavismo e piaceri adolescenziali di un gruppo di giovani impiegati negli infernali laboratori tessili della città di Zhili (i tre capitoli della saga Youth, l’ultimo dei quali, Homecoming, sarà proiettato alla Mostra del Cinema), la radicalità del lavoro di Wang Bing non sta mai solo nella sua volontà di rappresentare i contrasti clamorosi tra la fragile patina della ideologia comunista e una situazione industriale chiaramente orientata allo sfruttamento intensivo dei lavoratori e ad una totale assenze di garanzie legislative.
La sua caratteristica essenziale sta piuttosto nel metodo utilizzato per girare, attraverso il quale riprende operai e testimoni in modo quasi inavvertito, mescolandosi a loro, accumulando centinaia di ore di girato che poi monta con puntiglioso rigore. Mentre Wiseman ci mostra le stanze segrete di dispositivi complessi come musei, biblioteche, prigioni in lavori ove ogni parola pesa, Wang ci immerge in un flusso di parole leggere e senza peso, dalle quali, a tratti, emerge l’elemento di riflessione e di critica. È per questo motivo che i suoi doc durano otto, nove, quattordici ore: la verità irrompe come folgore da uno strato continuo di sbadata superficialità e questo ne aumenta la violenza disturbante.
Terzo e ultimo capitolo di un’indagine che il documentarista cinese ha portato rispettivamente a Cannes lo scorso anno e a Locarno nell’agosto scorso. Protagonisti sono alcuni operai tessili che in Cina si spostano dai propri villaggi rurali per lavorare in manifatture cit...
Guardando questo doc di nove ore, ambientato nelle fabbriche vicine alla chiusura di questo distretto della Manciuria, capolavoro di montaggio da un girato di 300 ore, si rimane colpiti dalla incrollabile determinazione del regista di rappresentare la crisi industriale attraverso le semplici testimonianze e conversazioni degli operai, fantasmi al lavoro o nelle stanze della ricreazione. Wang Bing, col suo cinema immersivo e molecolare, mette in essere un cinema della crisi che è l’opposto di quello molto fiction ed effetti speciali di Michael Moore.
Altro straordinario film di testimonianza che diventa storia orale attraverso i ricordi personali di trent’anni di vita di una donna perseguitata dal regime maoista.
L’unica opera di finzione del regista sul campo di rieducazione dove sono stati confinati un milione di dissidenti politici.
Documentario di otto ore che restituisce testimonianze dei sopravvissuti dei campi di rieducazione del regime comunista nel deserto del Gobi. Anche qui, come in tutte le opere di Wang Bing, la testimonianza, la preservazione della memoria vanno oltre il loro dato specifico diventano larga affermazione di una comunità.
Primo capitolo di una saga in tre parti sulle vicende di un gruppo di giovani lavoratori che ogni anno migrano dalla campagna alla città di Zhili per essere impiegati come manodopera nelle industrie tessili del posto. La seconda parte, Hard Times, è già uscita e alla Mostra viene proiettata la terza ed ultima parte, Homecoming.