A cent’anni dalla nascita, l’immenso cineasta armeno Sergei Paradjanov viene ricordato in un docu-drama diretto dalla giovane regista, produttrice e attrice Zara Jian. Osteggiato in vita per i suoi film, estranei ai precetti del realismo socialista, Paradjanov r...
Sergej Paradjanov appartiene alla sparuta pattuglia di registi che non solo hanno creato dei capolavori, ma che hanno anche definito un linguaggio nuovo nel cinema, un nuovo modo di coniugare immagini, suoni, parole. Nato a Tbilisi da genitori armeni, frequenta a Mosca i corsi di regia dell’Istituto Statale di Cinematografia e poi comincia la gavetta negli studi di Kiev, dove per oltre dieci anni realizza documentari, corti e lungometraggi ispirati alla solida tradizione del Realismo russo anni ‘50. Ora, sarà anche vero che Paradjanov ha rigettato quei film, definendoli “spazzatura”, ma insomma, non è che si possa essere troppo d’accordo con lui. Dopotutto se fosse stato per Kafka, di lui avremmo letto solo Le metamorfosi, Un medico di campagna e poco altro… E, allora, dico senza paura che Rapsodia ucraina, Il fiore sulla pietra, Il primo ragazzo, tutti datati tra il ‘59 e il ‘62, sono gran bei film, nei quali è possibile individuare indizi del genio futuro del regista (basti a ciò la scena iniziale nel campo di girasoli de Il primo ragazzo, dove c’è già l’essenza di quell’estasi visiva che diventerà poi la chiave del cinema del regista armeno).
È con Le ombre degli avi dimenticati, del 1964, che Paradjanov raggiunge quella libertà espressiva che gli permette di realizzare un’opera assoluta, di radicale embricamento tra immagini parole e suoni, tra narrazione e simbolismo religioso, tra storia, religione ed etnografia. Il film è un tapis roulant di immagini, emozioni, suoni, in una perfezione di ripresa in perenne movimento tra campi lunghissimi e dettagli esasperati, ma che ancora mantiene, sia pure a maglie larghe, una struttura di narrazione lineare. Che sparirà nel secondo capolavoro di cinque anni più tardi, Il colore del melograno, una sequenza lunga 80 minuti di tableaux vivants di abbacinante bellezza ripieni di corpi, animali, oggetti, simboli religiosi, che raccontano secondo linee narrative fantasiose la storia del poeta armeno del XVIII secolo Sayat-Nova. È troppo per la censura russa, del resto il disgelo si era interrotto qualche anno prima con la morte di Chruscev: il film viene ritirato, Paradjanov arrestato nel 1974, liberato solo nel 1977, riarrestato per qualche mese nel 1982. Per quindici anni non può più lavorare. Ma prima di morire, nel 1990, riesce a realizzare altri due grandi film: La leggenda della fortezza di Suram e Asik Kerib – Storia di un ashug innamorato, anch’essi tessere imperdibili dell’opus di un genio della vita e del cinema quale è stato Sergej Paradjanov.