Il Monte Hood sovrasta sul fondo – spesso in posizione centrale, nell’incredibile capacità di Anthony Mann di costruire l’inquadratura – all’inizio di Là dove scende il fiume. Un passaggio del dialogo lo paragona a un uomo alto con i capelli bianchi (in Mann il paesaggio vive e respira). Non è incombente, è lontano e sereno: un memento della difficoltà di raggiungere il Paradiso Terrestre. Nel finale trionfante e festivo lo rivedremo dall’altro lato del cammino.
In una basilare conversazione fra il vecchio Jeremy e Glyn (James Stewart), il primo racconta di aver visto anche altrove “la terra incontaminata” rovinata dagli uomini, che rubano e uccidono: «Non dobbiamo lasciare che accada anche qui» (attenzione: qui Glyn si porta la mano al collo sfregiato nascosto dal fazzoletto, il segno della sua antica vita di bandito).
Il Monte Hood sovrasta sul fondo – spesso in posizione centrale, nell’incredibile capacità di Anthony Mann di costruire l’inquadratura – all’inizio di Là dove scende il fiume. Un passaggio del dialogo lo paragona a un uomo alto con i capelli bianchi (in Ma...
L’avidità rovina tutto: per Mann, come per Budd Boetticher, il denaro è una vergogna. Il viaggio di questi settlers rappresenta il sogno di lasciarsi alle spalle, oltre il monte, il caos della Storia. Vale anche sul piano personale, con James Stewart che occulta il suo passato di fuorilegge ed è in lotta contro sé stesso. Come sempre in Mann la sua “parte oscura” è rappresentata da un doppio, qui il suo sodale Arthur Kennedy. Gli eroi manniani, ossessionati dal passato (la vendetta, l’amicizia tradita, i legami familiari infranti), sono interiormente scissi, perseguitati dalle Furie (che poi è il titolo di un altro western, meno noto ma fra i più belli, di Anthony Mann).