Il regista israeliano presenta Fuori concorso il documentario Why War, un film di guerra senza immagini di guerra costruito intorno al dialogo epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud sulla possibilità di evitare la violenza di massa.
Amos Gitai è artista poliedrico con numerose installazioni, pubblicazioni, e opere teatrali realizzate nel corso della sua lunga carriera (House, ultimo testo prodotto, sarà in scena in prima nazionale a Roma in Ottobre). Ovviamente tanto cinema, corti e circa trenta lungometraggi. È ospite abituale a Venezia sin dal 1989, ricordiamo Eden 2001, Terra Promessa 2004, Ana Arabia 2013, Rabin, Last day 2013 e il delicato Laila in Haifa del 2020. Spesso critico nei confronti del governo israeliano, quest’anno è presente alla Mostra con Why War. La traccia è data dal carteggio tra Albert Einstein e Sigmund Freud del 1932 sul tema della guerra, arricchita da numerose citazioni di altri scrittori che hanno riflettuto sul tema della violenza, da Virginia Woolf a Susan Sontag. Non aspettate delle risposte, ma durante la proiezione sentirete su di voi lo sguardo intenso del regista, attento a cogliere i vostri sentimenti e le vostre riflessioni. Dal film Laila riportiamo una citazione, «crediamo sia molto importante stimolare le coscienze tramite l’arte». Con partecipazione cerchiamo di capire meglio il suo punto di vista a riguardo e non solo.
In Why War per rappresentare la violenza lei ha preferito usare dipinti di Goya o antichi militi romani. Vi è una riflessione sulla diffusione continua di immagini di violenza e sulla possibilità che divengano intrattenimento. In una recente intervista lei ha citato come meritoria l’opera di Picasso, Guernica, quale indimenticabile atto di accusa sulla brutalità della guerra. Un artista ha delle responsabilità nei confronti della violenza nel mondo?
Negli anni ’30 Guernica non era solo un bel dipinto, ma un atto civico di un artista, Picasso, che, scioccato dal bombardamento del villaggio basco da parte della Luftwaffe, decise di dipingerlo. Oggi ammiriamo la bellezza dell’opera, ma non dobbiamo dimenticare che Picasso ne proibì l’esposizione in Spagna finché Franco fosse rimasto al potere. Questo dimostra che gli artisti hanno il potere di sanzionare. Qualche anno fa, quando il nuovo primo ministro spagnolo, un politico di sinistra, è stato eletto, ha deciso di far seppellire il corpo di Franco altrove, spostandolo dal suo mausoleo kitsch. Questo gesto è il risultato degli sforzi degli artisti e di tutti coloro che, per generazioni, hanno lottato contro il fascismo spagnolo. La memoria non è mai innocente.
Il cinema che realizzo è sempre ispirato dalla realtà in cui viviamo (Kippur, Kadosh, House, Rabin: The Last Day). In Why War ho scelto, ancora una volta, di confrontarmi con la dura realtà di questa regione. Il film evita di mostrare l’iconografia e le immagini degli orrori della guerra e della distruzione che continuano ad alimentare i conflitti. L’idea è quella di fare un film narrativo senza mostrare la guerra. Questo carteggio tra Einstein e Freud prosegue la mia ricerca su come si possano evitare i conflitti armati, su come sia possibile trovare soluzioni pacifiche per conciliare posizioni opposte. Attorno a questo straordinario dialogo tra due brillanti intellettuali ho costruito un film poetico in cui la guerra non appare mai.
Quando le Nazioni Unite nel 1932 chiesero ad Einstein di scegliere un intellettuale a cui porre una singola domanda, la sua scelta ricadde su Freud. Il loro dialogo inizia con due parole, riprese nel titolo del film, che hanno definito il discorso moderno sulla violenza di mas...
Susan Sontag e Christa Wolf con la loro accusa al genere maschile di prediligere la violenza, Einstein con la sconfortante ricerca di una Autorità sovranazionale che freni le guerre, o l’amarezza di Freud con il suo pensare che Eros e Thanatos siano impulsi connaturati e strettamente legati, quanto possono essere ancora attuali?
Per questo lavoro mi sono ispirato anche ad un testo di Virginia Woolf, Le Tre Ghinee, in cui l’autrice esplora le dinamiche di dominazione nella sessualità. A questo risponde un altro saggio di Susan Sontag, Davanti al Dolore degli Altri, che affronta anche l’iconografia della guerra.
Le atrocità e la barbarie perpetrate da Hamas il 7 ottobre sono imperdonabili. Non c’è alcuna giustificazione per stuprare donne o bruciare vive le persone. Nessun movimento di liberazione nazionale può scusare tali crimini. Penso spesso a Vivian Silver, una pacifista di 74 anni che ha dedicato la sua vita a far curare i bambini di Gaza negli ospedali israeliani. Il suo corpo è stato ritrovato bruciato nella sua casa nel Kibbutz Beeri. I giovani sono stati rapiti, stuprati e uccisi. Questo ciclo morboso ti fa venire voglia di piangere. Oggi si è instaurato un rituale terrificante fatto di bombardamenti, spreco di vite umane e risorse, un’immensa tragedia per i civili palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano crede che il conflitto possa essere risolto con la forza. Ma non ci sarà mai una soluzione permanente senza un dialogo profondo che tenga conto delle sofferenze di entrambi i lati.
Così dopo il 7 ottobre ho voluto leggere e rileggere alcuni testi per cercare risposte e capire le radici di questo desiderio umano di impegnarsi in una guerra e nell’uccidere. E in questa ricerca questo scambio di lettere tra Freud e Einstein nel 1932 è stata un’autentica rivelazione. La domanda attorno a cui si confrontarono queste due grandi menti fu: perché la guerra? Perché le persone vanno in guerra tra loro? Anche se personalmente sono partito dal conflitto israelo-palestinese, il film si sviluppa verso una riflessione universale che potrebbe essere applicata alla guerra tra Russia e Ucraina, così come a quanto sta accadendo in Sudan. Purtroppo gli esempi non mancano a riguardo.
Ho vissuto accanto a divisioni etniche, religiose e politiche, cercando sempre di non farmi sopraffare. Per me il cinema ha una missione civica. Questo è ciò che cerco di portare nella mia cinematografia. Viviamo in un mondo in cui il dialogo è diventato sempre più complicato e raro: questo favorisce posizioni estreme, come vediamo in molte parti del mondo. Quindi questo non è un film che vuole dare una risposta, quanto piuttosto un lavoro che intende mettere in discussione tutte le nostre certezze.
Per me il cinema ha una missione civica. Questo è ciò che cerco di portare nella mia cinematografia
Vorremmo penetrare nella struttura filmica e capire meglio ad esempio il ruolo assegnato al coro e alle parti cantate o musicate. Hanno la stessa funzione catartica del teatro greco classico? E quale funzione hanno intermezzi quali quello della donna che si tuffa nel mare?
Apprezzo molto la tua analogia con il teatro greco classico. La musica svolge un ruolo fondamentale nel mio lavoro, sia nei film che nelle produzioni teatrali. Per me la musica non ha mai un rapporto illustrativo con le immagini o i testi, ma piuttosto un rapporto dialettico. “Carica” l’immagine di un altro significato, creando una sorta di “umore”, lo spirito dell’opera, senza essere illustrativo.
Da diversi anni per i miei film e le mie opere teatrali collaboro con Alexey Kochetkov, un magnifico violinista e compositore di origine russa che si è convertito in Israele e ora vive a Berlino. È stato lui a presentarmi Kyoomars Musayyebi, un suonatore di santur iraniano che vive in Germania. Ho inoltre coinvolto Louis Sclavis, un musicista straordinario con cui collaboro fin dai tempi di Kadosh. Per Why War ho voluto ascoltare il War Requiem di Benjamin Britten, in particolare il brano Lacrimosa, composto su poesie del poeta inglese Wilfred Owen, ucciso durante la Prima Guerra Mondiale. Ho incluso anche il Kaddish di Maurice Ravel. Queste opere sono state per me una fonte d’ispirazione nella creazione della struttura poetica del film.
Dopo gli ultimi avvenimenti il cauto ottimismo di West of the Jordan River è ancora attuale? Si può ancora sperare in una convivenza tra palestinesi e israeliani nella stessa terra? È possibile chiedere ad Amos Gitai cosa poter fare per liberare l’umanità dalle guerre?
Mi piacerebbe costruire ponti invece di bruciarli. Noi registi, e credo tutti gli artisti in generale, non dovremmo rassegnarci alle divisioni. Alla vigilia del 7 ottobre sapevo che in Israele ci trovavamo in una situazione esplosiva, ma questa consapevolezza non ha attenuato il trauma in uno come me che da anni cerca di far dialogare israeliani e palestinesi attraverso l’arte. È ciò che faccio da tempo nei miei film e nelle mie opere teatrali. Nell’antichità il ruolo tradizionale degli artisti era quello di essere guaritori, di curare le anime. Mi piacerebbe accogliere l’idea del regista o dell’artista come guaritore.
Ricordo quello che mi disse l’ex sindaco di Nablus, Bassam Shakaa, quando girai Field Diary (1982). Gli posi la stessa domanda, ossia se fosse ottimista o pessimista riguardo al futuro. Bassam Shakaa mi diede questa splendida risposta: «È troppo rischioso essere pessimisti; non possiamo permettercelo». Non potrei essere più d’accordo. Dobbiamo rimanere fiduciosi di fronte alle forze della distruzione e del nichilismo.