Nata come Susan in un ambiente colto – Sigourney proviene da un personaggio de Il grande Gatsby – ha in qualche modo rappresentato viso ed espressioni “di passaggio”, tra la generazione delle Faye Dunaway e Glenda Jackson e quelle che sarebbero arrivate a metà degli anni ‘80, come Sharon Stone o Michelle Pfeiffer. Difficile non risultarne schiacciata od oscurata, riuscendo per di più a sottrarsi ai classici stilemi giornalistici, vale a dire i soliti: troppo alta, è bella ma non si capisce perché, tende un po’ a oscurare il partner maschile di turno e, perché no, a ‘bullizzare’ le attrici che si trova a fianco, ed eterne sciocchezze del genere.
Mai troppo in evidenza – forse la sua salvezza, certamente la sua cifra – capace di passare dal tragico alla commedia con assoluta disinvoltura, allo stesso modo in cui non si è negata a parti più agé, ha attraversato quattro decenni di cinema, curiosamente divisi in due momenti: nel primo recitando per autori del calibro di Ridley Scott, Roman Polanski o Peter Weir, per dirne solo alcuni, nel secondo preferendo affidarsi a registi meno noti ma capaci di mantenere costante la sua immagine, soprattutto lo sguardo diretto e il sorriso non sempre inequivoco, che poi sono solo alcuni dei modi in cui una persona diventa attrice. Modi che nel loro insieme hanno fatto sì che questa straordinaria interprete si meritasse a pieno titolo questo Leone d’Oro alla Carriera.
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In sé un piccolo classico: mentre la Storia rimescola le carte in Indonesia, lui e lei si innamorano, costi quel che costi. Lancio definitivo per Mel Gibson e Oscar alla magnifica Linda Hunt nella parte di un nano. Sodalizio tra i due Leoni d’Oro di quest’anno.
Sigourney Weaver è Dian Fossey, ricercatrice, fotografa, attivista animalista e, soprattutto, donna. Troppo per un Ruanda strangolato tra passato coloniale belga e commercio illegale di animali.
Film inspiegabilmente considerato un mezzo disastro, forse perché la figura di Colombo viene rimessa in discussione. Il visionario che non ha riportato alla Regina Isabella (Weaver) abbastanza oro e trofei, racconta al figlio la sua ascesa a caduta.
Terribile faccia a faccia tra carnefice e vittima, con le parti che vanno a rovesciarsi, anche se i primi raramente pagano. Grande Polanski nel freddo quartetto schubertiano che dà il titolo al film.
In un ambiente da suprematisti bianchi, l’uomo misterioso nasconde qualcosa della propria vita ma, come dice Don Winslow, il passato ha tutto il tempo che vuole. E prima o poi arriva.