Nell’analisi dell’impostazione e della realizzazione della Biennale Architettura di Lesley Lokko molti hanno riconosciuto, pur all’interno dell’infinito dibattito tra teoria e prassi della disciplina, il valore della visione della curatrice attraverso la visibilità data al continente africano e alle motivazioni di questa scelta.
Grazie all’impegno di Lesley Lokko, l’intenzione di catturare l’attenzione di un pubblico multidisciplinare è stata considerata da molti riuscita e la ricerca della completezza della visione dell’architettura può essere ritenuta fonte di ispirazione in grado di influenzare le pratiche dell’architettura più di quanto si possa intuire ad una prima analisi. Sta, dunque, agli architetti, e non solo, raccogliere la sfida e svolgere il ruolo di “agenti del (necessario) cambiamento”.
“Noi” e la storia della nostra cultura
A partire dalla considerazione che la cultura sia la somma delle storie che raccontiamo a noi stessi e di noi stessi, la Biennale 2023 è soprattutto una storia, una narrazione che si sviluppa nello spazio, purché avvenga il riconoscimento di chi sia il “noi” in questione.
Incompletezza della narrazione architettonica
Lesley Lokko parte da un assunto tutt’altro che scontato e che forse meriterebbe maggiore riflessione da parte di tutti: in architettura in particolare è stata storicamente dominante una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere ignorano enormi fasce di umanità – finanziariamente, creativamente, concettualmente –, come se avessimo ascoltato e parlato in una sola lingua determinando l’incompletezza della storia dell’architettura. Quest’aspetto non può essere trascurato in ogni valutazione sulla sua Mostra, come nemmeno il rispetto dell’intenzione di ampliare, cambiare o raccontare una nuova storia, il cui impatto si fa sentire ben oltre le mura fisiche e gli spazi che la ospitano.
Gestione ragionevole delle risorse naturali
È la denuncia orgogliosa di un punto di vista ben rappresentato dall’assegnazione del Leone d’Oro alla Carriera a Demas Nwoko, nigeriano, schierato nel criticare la dipendenza della Nigeria in merito all’importazione di materiali e beni dall’Occidente oltre che di idee, e impegnato nell’utilizzo di risorse locali. Da Nkowo partirono parole semplici e inconfutabili sulla gestione ragionevole delle risorse naturali da cui anche il mondo occidentale avrebbe potuto imparare, intento invece a usare troppa energia rispetto ai risultati ottenuti. Anche il Leone d’Oro assegnato al Padiglione del Brasile come migliore Partecipazione Nazionale è coerente con le intenzioni di Lesley Lokko nell’evidenziare una Mostra di ricerca e un intervento architettonico che centrano le filosofie e gli immaginari della popolazione indigena e nera verso modi di riparazione.
Relazioni pericolose e Forza maggiore: riflessioni e denunce
The Laboratory of the Future è il titolo della Mostra, da molti criticato come semplicistico e ritenuto non totalmente rispondente ai contenuti dell’Esposizione Internazionale di Architettura. La Mostra è un insieme di parti e alcune sezioni, dai titoli più azzeccati ma ugualmente in linea con il principale, quali in particolare Dangerous Liaisons e Force Majeure, inducono a intense riflessioni, saggi se non proprio dichiarazioni d’intenti sull’architettura nella sua accezione più estesa. In questo senso il lavoro di DAAR (Arsenale) – è sembrato emblematico nella narrazione della Mostra. Alessandro Petti e Sandi Hilal sono stati premiati per il loro impegno di lunga data teso a un profondo coinvolgimento politico con pratiche architettoniche e di apprendimento della decolonizzazione e decarbonizzazione in Palestina e in Europa.
Creazione e autorialità degli architetti
La novità della narrazione si esprime anche attraverso messaggi che catturano l’attenzione nell’allestimento. Come quello di Mass Design Group (Christian Benimana, Rwanda, 1982), uno dei partecipanti alla sezione Force Majeure nel Padiglione Centrale ai Giardini, che afferma: «L’idea che l’architetto sia l’unico autore del processo di creazione architettonica non è più valida». Con la sua Afritect, “ridefinizione” ampliata della parola “architetto”, Benimana presenta una nuova generazione di architetti africani che operano in base a soluzioni e idee che sono genuinamente africane e allo stesso tempo di ispirazione globale.
Allestimento multisensoriale e consapevole
Le installazioni della Mostra sono attraversate con più o meno potenza dai temi complessi e spesso dolorosi della decolonizzazione e della decarbonizzazione, proposti attraverso tecniche di rappresentazione materiali e olfattive, riutilizzando e adattando la struttura ereditata dalla Biennale Arte di Cecilia Alemani, principio sposato appieno, per esempio, anche dal Padiglione della Germania.
Diaspora africana
Degna di nota la scelta di Lesley Lokko di puntare i riflettori «sull’Africa e sulla diaspora africana, quella cultura fluida e ingarbugliata di persone di origine africana che oggi attraversa il globo». «[…] Perché il passato, per loro (i popoli un tempo assoggettati dall’Occidente), era la giungla del capitalismo occidentale, non la luce che i missionari pensavano di aver portato con sé», sottolinea lo scritto di Nadine Gordimer che accoglie i visitatori nel Padiglione Centrale ai Giardini. E ancora, Lokko porta in Mostra, ad esempio, le proposte del designer nigeriano Chidirim Nwaubani (Arsenale), una rivoluzionaria operazione di “rimpatrio digitale” di opere d’arte africane trafugate, custodite in prestigiose istituzioni situate principalmente nel Nord del mondo. Per la generazione più giovane di studenti, artisti, architetti e creativi africani di oggi l’accesso alla produzione culturale ancestrale è limitato. Non potendo viaggiare e visitare queste istituzioni diventa sempre più difficile essere in contatto con la legittima eredità. La piattaforma di Nwaubani, Looty, le registra digitalmente e le mette a disposizione sulla blockchain come NFT, offrendo una soluzione inaspettata alle dispute sulla restituzione di opere d’arte africana.
Il Grande sforzo della storia umana: catturare il carbonio
Con il cortometraggio The Great Endeavor (Il grande sforzo) di Liam Young (Arsenale) la narrazione di Lokko si completa di un utopico ottimismo: l’impresa di rimuovere dall’atmosfera l’anidride carbonica e di immagazzinarla sottoterra è a portata di mano. “Il grande sforzo” per catturare tutto questo carbonio comporterà la costruzione del più grande progetto ingegneristico della storia umana e lo sviluppo di una nuova infrastruttura equivalente per dimensioni a quella dell’intera industria globale dei combustibili fossili.
Rhael ‘LionHeart’ Cape, Ph. Marco Zorzanello – Courtesy La Biennale di Venezia