Oltre le linee

Uno sguardo dentro la Mostra di Adriano Pedrosa/3
di Lucio Salvatore

Potere e resistenza nell’arte contemporanea, tra le contraddizioni delle categorie imposte e la creatività che sfida le gabbie dell’identità.

Non siamo mai stati moderni, ma il modernismo ci insegue ovunque. Appartenenti a un destino che non abbiamo potuto evitare, dominati dalla tecnica che ci abita, siamo perennemente interrogati dallo spirito moderno sulle possibili maniere di stare al mondo. Per l’artista modernismo ha significato la necessità di commentare e conversare sul vuoto lasciato dall’ideologia moderna, dalla morte di Dio, un compito impossibile che nessuno gli ha mai assegnato, una pena autoinflitta, un esilio volontario in terra sconosciuta che lo rende perennemente straniero, condizione nella quale sopravvive con creatività. Per il tecnocrate, esperto di amministrazione e controllo, modernismo ha significato prosperità, opportunità di espansione, di appropriazione di territorio pubblico, di estrazione di ricchezza dalle postazioni di controllo panottiche privilegiate, potendo regnare liberamente nel contesto del nuovo ordine organizzativo e istituzionale, nel contesto di alienazione che la condizione moderna ha prodotto. Se per l’artista la ragione moderna è dialogo, corrispondenza, ascolto, per il tecnocrate è classificazione, ordine e controllo. Due forme di razionalità che hanno partorito due diverse eredità della cultura europea: il pensiero critico creativo e quello burocratico gestionale, che ha spesso prevalso nei momenti che contano. La superiorità tecnologica moderna, che ha nutrito il delirio europeo per un ordine universale, ha configurato il mondo nella forma di un piano cartesiano il cui tratto distintivo si è delineato in una sorta di linea retta di demarcazione, la stessa che agli inizi del XX secolo ha tracciato i confini delle nazioni e, conseguentemente, determinato i destini dei popoli, decisi a tavolino sulle pagine degli atlanti. Queste linee rette inorganiche hanno sezionato in parti squadrate i corpi di popoli interi secondo i criteri di una geometrizzazione della realtà che in pochi anni si sarebbe trasformata nella più profonda ingegnerizzazione della società, operata da tecnocrati di regime i quali, invece di operare sulla realtà, sono intervenuti sul linguaggio, sui segni e sulle narrative, creando quei mostri, conseguenze paranoiche dell’illuminismo, in arte impersonificati dai modernismi autoritari alla Greenberg.

È nel lignaggio di questa ratio, paranoica e irresistibile ai tecnocrati di primo livello, ossessionati dal desiderio di categorizzare e controllare la storia, sopravvissuta al postmodernismo e reincarnata nel decolonialismo degli ultimi anni, che vuole inscriversi la mostra di Adriano Pedrosa Stranieri Ovunque. Un ritorno alla solidità delle classificazioni moderne che, rinnegando la liquidità e scivolosità dei surplus di significati della realtà, cercano di configurare un ordine definito dai confini inattaccabili usando la posizione privilegiata del curatore per influenzarla e sedimentarla. Le gabbie rappresentative sono presentate orgogliosamente, a dispetto di una realtà sempre più fluida e meticcia, storta e complessa. A riunire in un quadro coerente tutte le categorie prescelte da Adriano Pedrosa c’è il concetto di straniero. Il curatore propone un’interpretazione della parola che comprende la totalità degli esseri umani, per poi prediligere una propria selezione di categorie specifiche presentate in mostra: arte folk, outsider, queer, indigena. Le categorie folk e outsider art, storicamente imposte dalle oligarchie culturali eurocentriche, appaiono nel contesto dell’arte contemporanea del 2024 reazionarie. La cronaca recente ci ha insegnato, infatti, come i cammini personali, unici, di artisti cresciuti fuori dalle accademie e ai margini del mercato e delle istituzioni, dalle diverse condizioni sociali, mentali, di conoscenza, sono stati e saranno sempre di un valore che trascende le categorie nelle quali sono stati relegati, utili solo a stigmatizzare e a riaffermare il loro status subalterno. Riconosciuti dalle istituzioni e premiati dal collezionismo, sono oggi protagonisti indiscussi dell’arte contemporanea, chiamati non più artisti outsider o folk, ma artisti e basta. Il gesto di riconoscimento di Pedrosa, dunque, invece di emancipare riafferma sulla grande piattaforma culturale della Biennale antichi stigma che il tempo e l’instancabile lavoro comunitario stava lentamente cancellando.

La categoria queer è chiamata in causa per il suo significato letterale, ‘strano’, che ha origine appunto nella parola straniero. Questa connessione etimologica offre motivo di riflessione ed approfondimento. Come sempre, tutte le parole acquistano significati diversi in funzione del tempo e dello spazio in cui sono utilizzate, a seconda dei contesti; se queer è stato un termine offensivo in Inghilterra negli anni ‘70, contemporaneamente in Germania poteva non esserlo e se negli anni è stato simbolo di inclusione di genere, fino a poco tempo fa gay non era considerato queer, oggi c’è chi immagina anche i cisgender sensibili alla causa dell’identità di genere fluida, degni membri della comunità queer. Questa fluidità inclusiva è una caratteristica preziosa che si contrappone ad una piattezza classificatoria curatoriale che rimette a un senso comune banalizzato, spinta dal desiderio di calare sulla realtà quell’ordine prestabilito di cui si nutre, rifiutando l’evidenza della permeabilità dei concetti irregimentati nelle tesi proposte. Mi sono chiesto che cosa abbia davvero voluto affermare il curatore, al di là delle sue buone intenzioni, quando ha dedicato una sezione di Stranieri Ovunque all’astrazione queer, un’ennesima inutile categoria, retaggio modernista e identitario allo stesso tempo, che riassume la doppia prigione ideologica che ha prodotto nel suo pensiero l’assenza di prospettive rilevanti. La sua posizione istituzionale privilegiata porta con sé la responsabilità del suo potere, del suo ruolo di influenzatore che è un riferimento per molti, così come lo è la sua narrativa, una gabbia classificatoria in risposta alla quale mi vengono in mente le parole dissonanti di Paul B. Preciado nel suo celebre discorso Yo soy el monstruo que os hable, informe para una academia de psicoanalistas: «Per libertà intendiamo uscire, intravedere un orizzonte, costruire un progetto, avere la possibilità, anche solo per brevi istanti, di sperimentare la comunità radicale di tutto ciò che è vivo, di ogni energia, di ogni materia, al di là delle tassonomie gerarchiche che la storia dell’umanità ha inventato». In queste parole impregnate dei traumi generati dal modernismo e del tentativo disperato di sfuggire dalle loro conseguenze c’è tutto lo spirito emancipatorio del subalterno.

Arte è una forma di sapere pre-categoriale, il suo capitale è di ordine simbolico, parla di ciò che non siamo capaci di tematizzare con precisione, che sfugge alle impalcature ideologiche che vogliono prestare alle opere significati che in esse non vi sono, caratteristiche artificiali funzionali e chiavi di accesso che riducono le loro potenzialità di entrata ed interpretazione, che tendono a trasformarle in categorie mercatologiche pronte al consumo immediato. Il riscatto viene da tutto ciò che gli artisti mettono in mostra, le loro biografie che ci rivelano come, in un mondo in cui l’io-soggetto è un prodotto sociale degli altri, sia sempre possibile e necessario un cammino personale che non coincida con le aspettative dell’altro, e dalle loro opere, capaci di resistere e trascendere le pressioni ideologiche dei curatori e quelle feticizzanti dei mercanti. Gli artisti presenti in mostra ci ricordano che il coraggio della dissidenza è riconoscere il valore dello scarto reale rispetto all’immagine ideale, copia identica di un originale che non è mai esistito, chimera identitaria di paradisi perduti. Un esempio per tutti è Manauara Clandestina, capace di mettere in gioco il suo essere corpo, nel nome del padre e della figlia, e il suo avere un corpo, in espansione tecnologica ed estetica. La sua Migranta è sempre in movimento oltre sé stessa, tra l’esplosione dei desideri e l’abbraccio intimo con la foresta, tra l’immersione nel corpo liquido e la sete di liquido del corpo. Al cospetto del narcisismo astorico delle costruzioni identitarie che rivendicano coesione di valori assoluti, la risposta degli artisti è l’infedeltà a tali valori e la coltivazione della capacità creativa di evasione da queste gabbie. Ad ogni nuovo canone, espressione delle pressioni di narrative identitarie nazionaliste, suprematiste, razializzate, geopolitice, corrisponde sempre in alternativa un tesoro nascosto che risiede ai margini, una lezione che nasce nella resistenza che si rifiuta di conformarsi all’imposizione del nuovo ordine. La lotta continua è contro l’uniformazione alle aspettative dell’altro e passa per l’accettazione del costante stato di inadeguatezza rispetto ai modelli di identità (falsificate) in voga in un dato momento storico. Dallo stesso testo di Preciado: «Tutti abbiamo un’identità. O meglio, nessuno ha un’identità. Occupiamo tutti un posto diverso in una complessa rete di relazioni di potere. Essere contrassegnati da un’identità significa semplicemente non avere il potere di definire universale la propria posizione identitaria». Libertà è essere in difetto al cospetto della fede che non hai, del desiderio che non puoi permetterti, in difetto rispetto alla mancanza che dovresti sentire, alla colpa che dovresti avere, all’essere che dovresti divenire. L’inadeguatezza incolmabile di chi resiste è una resistenza che rende invisibili, in un’epoca in cui è visibile solamente il tratto che ricalca quelle mappe disegnate a linee rette sul piano cartesiano dentro i confini inventati di una realtà fatta di forme prestabilite, fatte per essere dimenticate.

Immagine in evidenza: Stranieri Ovunque, Manauara Clandestina, Migranta, Padiglione Centrale, Giardini – Courtesy La Biennale di Venezia – Photo Andrea Avezzù

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