Il campo da basket come dimensione che progressivamente trascende la sua originaria e specifica funzione ludico-sportiva per farsi luogo di incontro e di condivisione quotidiana delle comunità native.
Siamo nel pieno dello svolgimento degli attesissimi mondiali di basket in quel di Manila, Filippine. Per quelli che come noi sono baskettari da quando si era ancora in fasce, senza discussione alcuna tra tutti gli sport praticati dall’homo sapiens el balon cesto, per dirla alla spagnola e quindi alla messicana…, è in assoluto quello più associabile all’idea, alla disciplina dell’architettura. Perché in nessun altro sport come nel basket bisogna disegnare lo spazio con continue
e variabili soluzioni ingegnose, con schemi che sembrano proprio delle piccole unità progettuali in cui tutti gli attori coinvolti devono giocare la propria rispettiva parte per il buon fine del disegno di insieme.
Non a caso il time-out è un’invenzione cestistica, poiché il gioco deve scorrere fluido, razionale e creativo insieme, e però dev’essere continuamente rivisto, ripensato, corretto. Esattamente come nei progetti di architettura, dove già dall’Università si familiarizza con il concetto di “revisione”. Singolare e acuta quindi l’idea che quest’anno hanno avuto i messicani per il loro Padiglione nazionale, segnatamente l’Instituto Nacional de Bellas Artes y Literatura con il coinvolgimento in qualità di curatori ed espositori insieme di APRDELESP y Mariana Botey, di fare di un semplice, spartano playground cestistico il cuore vivo del loro progetto decisamente declinato verso un’idea di riscatto sociale, culturale, diremmo di più, identitario.
Il tema è come contribuire fattivamente, collettivamente anche con piccoli progetti di base al processo di decolonizzazione “contemporaneo” delle comunità indigene del gigante centramericano. Quindi il campo da basket come dimensione che progressivamente trascende la sua originaria e specifica funzione ludico-sportiva per farsi luogo di incontro e di condivisione quotidiana di queste provate comunità, divenendo punto focale nella costruzione di processi politici, sociali, culturali. Magari sarà stato un caso, chissà, eppure ci piace comunque pensare che la scelta di un campo di pallacanestro anziché del classico, che so, macho campo da calcio, non sia stata affatto un’idea non troppo meditata, bensì il prodotto in qualche modo “logico” di una visione di una socialità da consolidare attorno a una modalità di convivenza, e anche di gioco, sì, versatile, aperta, inclusiva.
Ok, è vero, lì l’America non è come per Anna e Marco così lontana, e anche se il Messico è stato per secoli politicamente colonizzato dagli spagnoli, negli ultimi due, o quasi, lo è stato economicamente dagli Usa, e si sa che lì il calcio è roba astrusa mentre il basket è pane quotidiano e da esportazione. Va bene, ok… Eppure in questa intuizione felice di connotare la presenza messicana alla Biennale Architettura attraverso il processo di decostruzione di un impianto sportivo occidentale al servizio delle necessità sociali dei nativi, ripeto, ci piace immaginare che tra tutti i giochi questo si sia prestato per sua conformazione e costruzione costitutiva più e meglio di ogni altro a tal fine. E comunque poi si può pure tirare a canestro alla Biennale quest’anno, ehi, ma quando mai? Que viva Mexico!! (che ai Mondiali ci sarà, del resto una sua ottima tradizione ce l’ha: chi si dimentica dell’immenso Manuel Raga della leggendaria Ignis Varese anni ‘70??).