La Casa dei Tre Oci conclude la sua stagione espositiva dedicata alla fotografia con un tributo allo straordinario lavoro della fotografa franco-svizzera Sabine Weiss, scomparsa lo scorso anno a Parigi, una delle maggiori rappresentanti della fotografia umanista francese insieme a Robert Doisneau, Willy Ronis, Edouard Boubat, Brassaï e Izis.
Con la mostra Sabine Weiss. La poesia dell’istante, curata da Virginie Chardin e Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci, l’attività promossa dalla Fondazione di Venezia e realizzata da Marsilio Arte in questi anni nell’iconica sede espositiva della Giudecca passerà il testimone al Berggruen Institute, trovando nuovi terreni comuni di indagine e conoscenza della società con particolare attenzione alla fotografia.
Sabine Weiss (Saint-Gingolph, Svizzera, 1924 – Parigi, 2021) iniziò giovanissima la sua carriera di fotografa, al tempo non facile per una donna. Nel 1950 sposò Hugh Weiss e con lui si trasferì a Parigi. Nel 1952 la sua carriera ebbe una svolta decisiva entrando nell’agenzia Rapho, su raccomandazione di Robert Doisneau. Le sue fotografie vennero pubblicate sui maggiori giornali internazionali come il «New York Times», «Life», «Newsweek». Grandi musei le hanno dedicato mostre, tra cui il MoMA di New York.
Nelle sue fotografie in mostra, oltre 200 immagini che costituiscono la più ampia retrospettiva mai realizzata su di lei, salta subito all’occhio come l’obiettivo dell’artista vada dritto sui corpi e sui gesti delle persone per far trasparire le loro emozioni e i loro sentimenti senza filtri. Indubbiamente il lavoro di Sabine Weiss è sorretto da una profonda curiosità e da altrettanto entusiasmo, facendo emergere la sua capacità di entrare sempre in empatia con i soggetti. C’è grande verità nelle sue opere – dai reportage, ai ritratti di grandi artisti o di famose attrici, agli scatti di strada con scene di vita quotidiana, ai famosi volti dei bambini, fino alle immagini dei suoi numerosi viaggi per il mondo, in Birmania, India, Portogallo ecc, e poi i bellissimi servizi di moda pubblicati da «Vogue» tra il 1952 e il 1961, fino agli scatti inediti, come quelli dedicati ai manicomi –, Sabine Weiss riesce a trasferirci le stesse emozioni che prova lei nel ritrarre i volti di quei bambini, dei passanti, dei lavoratori incontrati negli Stati Uniti. La fotografa mostra i suoi soggetti sempre nella loro dimensione ordinaria, senza enfasi, senza eccessi o espedienti tecnici, semplicemente nella totale normalità con tutte le sue imperfezioni, esaltandone sempre l’umanità.
Diceva: «Fotografare è un alibi, un pretesto per vedere tutto, entrare dappertutto, comunicare con tutti».
Immagine in evidenza: 1953. Autoritratto © Sabine Weiss