Una poetica incentrata sul concetto di ‘svolta’ accomuna i personaggi di Pietro Marcello, presenza fissa a Venezia.
Il cinema di Pietro Marcello è attraversato da una costante che si conferma, film dopo film: i suoi protagonisti hanno una predestinazione che se ne impossessa, costringendoli ad una nuova vita. Non è una forma di riscatto rispetto alla vita precedente, non è la conquista lenta e faticosa di una nuova identità: è piuttosto la scoperta di una bellezza nuova che letteralmente li porta ad emanciparsi e a vivere un’esistenza ad essa ispirata. Ne La bocca del lupo è l’amore tra il carcerato e la transessuale Mary che sconvolge i loro destini; in Bella e perduta è la missione del pastore Tommaso Cestrone di proteggere dalla rovina la reggia borbonica di Carditello; in Martin Eden la volontà del protagonista di istruirsi e dedicarsi alla scrittura per essere degno della donna che ama.
Non sfugge a questa regola nemmeno la protagonista del nuovo film di Marcello, L’envol, girato in francese (titolo italiano Le vele scarlatte), tratto da un romanzo del 1923 del russo Aleksandr Grin. Siamo nella Francia contadina del primo dopoguerra, e Juliette, giovane orfana di madre che vive con il padre reduce della Prima Guerra Mondiale, malvista dagli abitanti del villaggio per la sua natura di sognatrice, riceve da una maga la predizione che, un giorno, verrà portata via da “delle vele scarlatte”. Il film racconta nella prima parte l’attesa, nella seconda la realizzazione, di questa predizione e lo fa con un’impostazione narrativa ed estetica di evidente impronta francese, come se Marcello, che nei suoi film precedenti aveva puntato il suo realismo magico e favolistico su una Napoli e una Campania lontane da banalizzazioni e ovvietà, pagasse un debito al cinema di Jacques Rivette e di Jacques Demy (nel film ci sono parecchie scene musicali). Il film, girato in 16 mm, incapsula la storia in una evidente esaltazione della natura circostante, e non lesina quindi inquadrature in luce naturale dedicate alla sfolgorante bellezza dei campi, dei boschi e dei ruscelli normanni. Anche se più di un critico l’ha considerato una caduta rispetto alla sobrietà estetica cui Marcello ci aveva abituato nei film precedenti, a noi sembra che anche questo film confermi il talento specifico di Marcello di mescolare realtà, finzione e surreale in una narrazione obliqua, che ci permette di afferrare quel che di straniante c’è, nelle cose della vita.