È un modo di dire: «Le parole pesano come pietre». Questo pensiero è scaturito dalla lettura di una scritta su una parete bianca opera dell’artista cinese Gao Bo, da molti anni residente in Francia, «Il n’y pas de langue qui ne soit pas dangereuse», che in italiano suona “Non c’è lingua che non sia pericolosa”. La visione dell’artista è rivoluzionaria nella sua logica semplicità, non esiste infatti una lingua incontaminata, che non contenga espressioni di abusi, violenza e sopraffazione, per questo occorre inventare una lingua ad hoc in cui tali concetti siano estranei. Ed è quanto Gao Bo ha realizzato, creando una lingua nuova, in cui ciascuno può riconoscere un tratto di armonia. L’alfabeto non corrotto dalla violenza può ora essere letto nella bellissima mostra Gao Bo高波 Offerta.Venezia-Himalaya, che inaugura la nuova galleria IN’EI, nell’ex spazio Ravà a San Silvestro, affacciato sul Canal Grande.Secondo Hélène Dubois, fondatrice con Patrice Dumand di IN’EI, «l’intenzione è quella di lavorare con pochi, selezionati nomi, su cui la Galleria ha deciso di investire, innescando percorsi a lungo termine con artisti e architetti di generazioni e percorsi diversi, affermati ed emergenti, creando nuove connessioni tra Asia Orientale ed Europa per valorizzare gli autori e produrre lavori ad hoc, con una proposta che metta insieme arte e design». Le stanze della Galleria regalano la dolcezza di un pensiero lieve e profondo, una sorta di ponte in grado di creare un dialogo proficuo tra artisti e opere provenienti da Cina, Giappone, Corea e Europa.Il nome IN’EI è un omaggio allo scrittore nipponico Tanizaki Jun’ichiro e un’atmosfera piacevolmente orientale echeggia nella Galleria. Offerta, curata da Pietro Gaglianò, presenta come opera principale Mandala Offering, Tibet, un’installazione fotografica ambientale che Gao Bo ha realizzato con 1000 pietre, numero che nella cultura tibetana definisce l’infinito. Sopra ogni pietra l’artista ha impresso i ritratti fotografici di donne e uomini, anziani e giovani, e una serie di numeri che rimandano alla pratica disumana della numerazione dei prigionieri, per privarli della loro personalità e renderli un mero oggetto di conta.L’opera e l’intera mostra nascono dal forte e decennale legame di Gao Bo con la cultura tibetana e sono non solo un’offerta alle persone rappresentate e a tutto il loro popolo, ma anche una riflessione sulla vita, sulla morte, sulla memoria e sulla relatività del tempo. Nelle intenzioni dell’artista queste pietre, che hanno provato le acque del Canal Grande, sono destinate a far ritorno sugli altipiani del Tibet per essere disperse nella natura. Il “back home” sarà poi testimoniato da Gao Bo e diventerà un’altra opera.