Una mostra che è moltitudine di voci, per attraversare gli snodi concettuali della Biennale Architettura 2023.
La narrazione di una mostra non è quasi mai un quaderno di viaggio. Più spesso, assume pose culturaliste con l’obiettivo di promuovere posizioni o ideologie, o modelli didascalici, utili per affiancare una visita o archiviarne la memoria. Altre volte – quasi sempre, in realtà – i cataloghi ricordano gli stucchevoli “fiori in cornice” di Gozzano, con la sua Venezia ritratta a mosaici e gli acquerelli un po’ scialbi. Lesley Lokko, invece, abilissima narratrice tra le più popolari voci della “diaspora africana”, per la sua Biennale dedicata al presente inteso come laboratorio del futuro, fa tre scelte molto precise rispetto a cosa debba essere questo catalogo: un quaderno di viaggio, un ascolto plurale, una mostra esso stesso. Il viaggio, in particolare, non ha nulla a che vedere con le incursioni orientali dello sguardo veneziano di Marco Polo, non ha la forma intima dei pellegrinaggi d’arte di Bernard Berenson, non ha neppure il tono disincantato dei reportage di Arbasino in Cambogia. Il viaggio di questo catalogo è anzi inteso come pratica di ascolto e invito alla riflessione, non come esperienza di osservazione e neppure come deposito di giudizi. A parlare, per l’appunto, sono un ampio e inaspettato numero di voci, nella forma di testi brevi stampati in grande, o di citazioni sintetiche e incisive, affiancate da una sequenza di grandi immagini autoriali di luoghi e pratiche dell’Africa contemporanea, ma anche dalle tracce del dialogo curatoriale, riportate attraverso i frammenti delle lettere della Lokko usate come invito per i practitioners, che sono definiti così invece che “architetti”, non solo in ordine a una maggior inclusività ma anche per dare maggior conto di che cosa significhi oggi occuparsi di produzione dello spazio. Coerentemente con l’intenzione di fare del catalogo, a un tempo, un viaggio e una mostra, il volume principale non ha un indice. Esiste piuttosto un sommario, che è poi una approssimativa scorsa delle parti, che inquadra alcuni nodi concettuali, fondanti per la Lokko. In ultimo, le sezioni dedicate ai diversi progetti speciali, al public program – un “Carnevale” nel senso inteso da Bachtin, peraltro citato, al College, esperienza educativa nuova per la Biennale Architettura ma già sperimentata in altre sezioni dell’Istituzione Veneziana. Va certamente detto che il catalogo prevede tradizionalmente un comune canone: due volumetti, uno più ampio dedicato alla mostra principale – che è poi anche quello più corposo, in cui emergono le scelte curatoriali, e uno che si occupa dei Padiglioni nazionali, raccogliendo come da tradizione la sequenza delle schede fornite dagli Stati partecipanti, quest’anno 64.
Il catalogo accoglie poi due contributi testuali, uno del Presidente e uno del Curatore, infine si compone delle sezioni della mostra e di tante schede quanti partecipanti. Poiché questa struttura è pressoché identica a sé stessa da molti anni, quel che conta, più che il canone, è l’eccezione. L’anomalia di questo catalogo sta nel fatto che invece di trovarci tra le mani il pacificato precipitato di una mostra rassicurante, abbiamo invece un volume solido e stimolante che esprime due movimenti: da una parte uno statico, il posizionarsi preciso di una scelta, che emerge tanto nella mostra quanto nel catalogo attraverso una pluralità di voci non coincidenti; dall’altra uno dinamico, ovvero un invito all’azione che non è il tradizionale affanno futurista di accelerazione del progresso e dell’innovazione, ma un ricorsivo concentrarsi su forze di riproduzione i cui strumenti sono l’ascolto, il fallimento, la narrazione. La consistenza della scelta curatoriale è, anche, la miglior risposta alla moltitudine delle critiche troppo spesso banalizzanti e miopi che sono venute, e mi pare si possa sintetizzare in questo modo: l’architettura è una pratica di pensiero e costruire non è la miglior risposta per confrontarsi con il presente. Per evidenziarlo, il catalogo raccoglie posizioni e brevi saggi di voci di politici, filosofi, scrittrici, fondatori e fondatrici di istituzioni di svolta, sociologi e reporter: sono, ad esempio, quelle di Michail Bachtin, Thomas Sankara o Barack Obama. Ma anche quelle di Tosin Oshinowo, Mpho Matsipa o Bianca Manu, voci poco conosciute nel dibattito italiano ma che hanno grande rilievo sul piano internazionale. L’altro movimento che il catalogo suggerisce è quello a perdersi. Uno smarrimento necessario, che è già – esso stesso – un laboratorio: si tratta di non procedere affatto in senso consecutivo, raggranellando un repertorio delle case del futuro, standardizzato bazar di soluzioni fai da te da portarsi a casa in scatole piatte. Il catalogo e la Biennale, anche quando offrono lo sguardo di architetti famosissimi che hanno costruito un po’ ovunque nel mondo, preferiscono concentrarsi su quali idee sottendano le architetture, piuttosto che sulle soluzioni che offrono. L’invito a perdersi ha, piuttosto, una logica ricorsiva e tentativa: se è vero che le notti del mondo sono tante e dense (habet mundus iste noctas suas, et non paucas, si direbbe), quel che serve non è correre verso il giorno, ma scavare nella notte, rovesciando l’urgenza del trovare una efficace soluzione nel pensare invece a come abitare in modo radicale il problema, scoprendo le possibilità del darsi del tempo di fare degli errori: fail, fail again, fail better.
Ph. Andrea Avezzù