La 18. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, quest’anno curata da Lesley Lokko, ridefinisce l’architettura attraverso una molteplicità di narrazioni e prospettive. Prima curatrice africana, Lokko presenta il suo Laboratorio del Futuro che spinge lo sguardo oltre la comfort zone occidentale verso una definizione di una
nuova ri-globalizzazione.
La svolta narrativa dell’architettura è un affare recente. A dire il vero c’era già stato qualcuno a occuparsene più o meno intorno agli anni ‘60, in un mondo perlopiù europeo, con Roland Barthes a farne persino una semiologia. Ma poi, vuoi per il rigurgitante postmodernismo dell’epica Strada Novissima alla Biennale-numero-uno (1980), vuoi per l’urgenza di far fronte a territori sempre più sul baratro di crisi incipienti, vuoi per un crescente, disincantato neo-formalismo materiale, questa idea della Narrazione in architettura si è fatta via via meno percorribile.
A me pare che la forza della Biennale di Lesley Lokko stia tutta qui: affermare che «la mostra è una storia», per poi però dire anche che la storia non è una sola, ma è «un insieme di racconti», perché – ed è qui il punto – «la storia dell’architettura è incompleta. Non sbagliata, ma incompleta». La “svolta nera” di questa mostra è sia un’esplorazione che un ascolto: di voci che moltiplicano narrazioni e posizioni, che allargano orizzonti anziché focalizzarsi su una sola prospettiva, che fondono territori di comunanza che prevalgono su appartenenze geografiche e su egemonie culturali. Anzitutto va detto che ascoltare queste molte voci significa rivedere la nostra idea di esploratori, ribaltare Marco Polo, per così dire. Per cui invece di andare a raccontare a Kublai Khan, da viaggiatore veneziano, le città invisibili del suo impero, l’esploratore resta a Venezia e lascia che siano le città del mondo a diventare visibili e a raccontarsi a lui, ciascuna con la propria voce. Città e voci che si narrano da sé, in racconti fatti di differenze e comunanze.
Prima su tutte, l’idea di Blackness. Sia che rileggiamo Gilroy o Fanon, sia che osserviamo l’African Future Institute fondato ad Accra dalla stessa Lokko – da cui arrivano anche molti practitioner, tra cui l’icona Sir David Adjaye – il “Black” emerge non come alternativa, non come rifiuto o rivendicazione, ma come un oceano comune, indifferente a etnie e nazionalismi, capace di ridefinire l’identità dell’essere donne o uomini contemporanei entro un territorio contro-geografico. I modi di queste storie hanno in genere a che fare con un ‘progetto minore’. Ben lontani dall’idea che i practitioner siano una minoranza, giacché sono anzi attori di trasformazione collocati ben al centro del dibattito architettonico contemporaneo, va però detto che hanno un modo di costruire lo spazio che è proprio quello di cui parlava Kafka. Perlomeno quando propendeva per una letteratura minore; vale a dire quel che accade quando si prende una lingua maggiore, (la “storia incompleta” di cui sopra), per farne un “altrimenti”, un otherwise. È una “maggioranza minore”, come nel 2017 la stessa curatrice definiva la sua esperienza pedagogica alla Graduate School of Architecture di Johannesburg. E i practitioner altro non sono che “funamboli” in equilibrio tra chi sono realmente e chi altri si aspettano che essi siano, tra egemonia culturale e alterità, tra lo sguardo su se stessi e lo sguardo altrui – con il coraggio di esprimere l’autenticità della propria voce. Metafora, quella della fune tesa, che è già propria dell’architettura da tempo, complice l’importante lavoro di Léopold Lambert (fondatore e direttore della rivista «The Funambolist») che la Lokko indaga e attraversa in più passaggi.
Ed è per questo funambolismo “fuggitivo”, vale a dire non staticizzato nel pubblico mainstream, che in Biennale si trovano forme narrative preconizzate: virtuali, digitali e fantascientifiche, come la magia di certa vulgata afrofuturista forse presumerebbe. Ma c’è anche l’“inatteso” espresso in modelli, sezioni, disegni (persino a mano, in modo ormai controcorrente). Installazioni in cui immergersi è necessario. Tappeti come progetti, processi e app. Sono pratiche, prima che spazi. C’è infine una questione che riguarda il tempo, che è anche lo spazio della speranza che Lesley Lokko ci offre.
Nel suggerire l’opportunità di rendere più complesso il racconto dell’architettura, questa Biennale si confronta inesorabilmente con l’urgenza della crisi climatica e con la fine della Storia. Eppure, mentre una narrazione solastalgica ci porterebbe ad esacerbare i conflitti politici e sociali della lotta contro il tempo per la salvezza dell’umanità, le molte narrazioni in mostra sembrano invece dire che il tempo è dalla nostra parte, perché affidarsi alla più giovane generazione del Pianeta per indagare il futuro significa scommettere su qualcuno che ha ancora tutto il tempo di esplorare, di fare errori, di provare e riprovare. È il “diritto all’opacità”; che è quel che protegge l’esistenza del diverso, quello in cui risiede la speranza. Perché, ci sembra dire Lesley Lokko insieme a Édouard Glissant, per vivere o per costruire un futuro con l’altro non è più necessario “comprenderlo”, ossia ridurlo al modello della mia stessa trasparenza. Ma serve, piuttosto, lasciare che racconti la propria storia e ci mostri la propria città.
Immagine in evidenza: Lesley Lokko, ph: Jacopo Salvi, courtesy La Biennale di Venezia