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Amos Gitai, o dell’arte della convivenza
di Massimo Bran

Il grande cineasta di Haifa presenta all’Arsenale il suo progetto intitolato House, lavoro che prende la duplice forma di uno spettacolo teatrale, portato in scena in tutta Europa, e di una installazione, per l’appunto collocata nel cuore della 18. Biennale Architettura.

Gli unici studi che ho fatto sono quelli di architettura, perché mio padre era un architetto del movimento Bauhaus, e volevo seguire le sue orme. Penso di aver iniziato a diventare un regista per via della guerra del Kippur.

Così Amos Gitai, tanto perché sia chiaro ai più che la sua partecipazione alla Biennale Architettura di Lesley Lokko è tutt’altro che incongrua e tantomeno casuale. Il grande cineasta di Haifa, colui il quale, unitamente alla laica, somma triade letteraria rappresentata da David Grossman, Abraham Yeoshua e Amos Oz, ahinoi gli ultimi due da poco scomparsi, da decenni rappresenta il fronte più aperto e progressista dell’intellighenzia engagé israeliana, presenta all’Arsenale il suo nuovo progetto intitolato House, lavoro che prende la duplice forma di uno spettacolo teatrale, portato in scena un po’ in tutta Europa, e di una installazione, per l’appunto collocata nel cuore della 18. Biennale di Architettura. Il tema è sempre quello, purtroppo bollente per non dire incendiario, che informa permanentemente e ineluttabilmente il quotidiano del popolo ebraico e di quello palestinese. House si articola in realtà in una serie di installazioni multimediali in cui si incrociano in un tessuto di vibrante, fertile contaminazione lingue, tradizioni musicali, generazioni, identità etniche capaci nel loro insieme composito di rivelare e di restituire le complesse memorie del passato al fine di immaginare concrete strade di convivenza pacifica. Futura purtroppo, poiché il presente in quelle irrisolte terre parla ancora una lingua color rosso sangue. Le installazioni raccontano la storia, lunga un quarto di secolo, di una casa a Gerusalemme Ovest appartenente un tempo a un palestinese, costretto poi ad abbandonarla a causa della guerra scoppiata nel 1948, dove in seguito il governo israeliano collocherà degli ebrei algerini. L’abitazione diverrà progressivamente un luogo emblematico di incontro tra due popoli in eterno conflitto, incontro che questo progetto attraversa condividendo i racconti dei suoi occupanti. Vi è come un’urgenza viscerale in Gitai di vivere ed esprimere l’insofferenza verso l’ottusità nazionalistico-identitaria purtroppo crescente in ogni dove oggi, e che naturalmente in quelle terre da sempre la fa da padrona. E lo fa con una disposizione radicalmente meticcia. Disposizione che connota non solo questo progetto espositivo, ma anche la sua gemella messa in scena teatrale, che vede coinvolti insieme attori israeliani e palestinesi, ma non solo, vedi la presenza di Irène Jacob, francese. Una pièce che di questa parola unificante, coinvolgimento, fa la sua cifra totalizzante, rendendo protagonista attivo il pubblico stesso, invitato ad interagire sul palcoscenico. La vera sfida per Gitai è in forme nuove sempre la stessa, quella di smascherare le trame ciniche e insolenti del potere, dimostrando matericamente come l’arte possa unire le persone che la realtà e la politica intendono dividere.

 

Immagine in evidenza: Courtesy La Biennale di Venezia

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