Nata al Cairo, in Egitto, nel 1938, cresciuta a Istanbul e trasferitasi in seguito a Parigi, dove tuttora vive, l’artista franco-turca riceve quest’anno il Leone d’Oro alla carriera. Con la sua arte ha affrontato temi sociali, politici e di genere, con focus sulle questioni legate all’identità e alla migrazione. Emozionante la sua “Topak Ev” ai Giardini della Biennale, esposta per la prima volta accanto a “L’esilio è un duro lavoro”.
L’esilio è un duro lavoro. In questo verso del poeta turco Nâzim Hikmet è racchiusa l’essenza di Nil Yalter, artista nomade, sperimentatrice di mezzi espressivi, pioniera della multimedialità e instancabile esploratrice delle possibilità dell’arte concettuale. Nata al Cairo, in Egitto, nel 1938, cresciuta a Istanbul e trasferitasi in seguito a Parigi nel 1965, dove tuttora vive, Nil Yalter ha affrontato temi sociali, politici e di genere, con focus sulle questioni legate all’identità e alla migrazione. La sua è un’attenzione quasi antropologica verso i gruppi di emarginati, dalle detenute di un carcere di Parigi alle donne delle tribù nomadi dell’Anatolia, fino alle comunità degli immigrati nelle banlieues parigine. Le sue opere raccontano, mettono in luce, testimoniano, ridanno dignità. La sua carriera artistica inizia nel 1957, quando tiene la prima mostra presso l’Istituto Culturale Francese di Mumbai, in India. Ma è successivamente a Parigi che inaugura un nuovo capitolo del suo percorso artistico, sperimentale e pionieristico. Nel 1973 mostra alcuni suoi disegni di una yurta a Suzanne Pagé, capo curatrice del Museo d’Arte Moderna di Parigi, che le propone una mostra personale entro la fine di quello stesso anno. Seguendo le indicazioni di un amico etnografo entra in un contatto con una delle tribù nomadi in Anatolia e trascorre con loro alcune settimane. Si intrattiene in particolare con le donne del villaggio, che dall’età di quattordici anni iniziano a costruire con pelli di animali la tenda dove abiteranno da sposate. Nasce così una delle opere più iconiche di Nil Yalter, Topak Ev (“casa circolare” in turco), che dopo Parigi, sarà esposta, fra i vari altri musei, alla Kunst Halle of Göttingen, al Museum Santral di Istanbul di Istanbul e al MAM di Rio De Janeiro nel 2014, dove sarà proprio Adriano Pedrosa a volere fortemente la sua tenda e ad organizzarne il suo primo trasporto oltreoceano. L’anno successivo Yalter realizza La Roquette. Prison de femme, una serie di video basati sui racconti di Mimi, un’ex detenuta nel famoso carcere femminile parigino che sarà chiuso e demolito nel 1974. È dello stesso anno The Headless Woman o La Danza del ventre, un’opera fondamentale con cui Yalter affronta il tema dell’autorappresentazione e del controllo sul proprio corpo e sulla propria immagine da parte delle donne. Le immagini riprendono una donna mentre danza, ma di lei si vede solo il ventre e delle scritte sulla pelle, estratte da un testo di René Nelli, Erotique et civilizations.
Sembra che tutte le sue opere scorrano su uno stesso filo, ognuna l’evoluzione della precedente, ognuna contenente un elemento linguistico che evoca, più che spiegare, l’universo umano, sociale, politico in cui quell’opera è nata. Dai racconti delle nomadi in Anatolia Yalter aveva appreso dei loro mariti, figli, nipoti trasferitisi a Istanbul e Ankara o anche in Europa in cerca di lavoro. Le condizioni precarie dei lavoratori immigrati di Parigi saranno al centro di un lavoro che impegnerà l’artista per molti anni. Yalter si ‘allea’ con la rete di associazioni che si occupano delle comunità di migranti, raccoglie testimonianze dirette, riprende i lavoratori nelle loro case mentre le raccontano le loro esperienze. Il tutto confluirà nell’installazione multimediale Temporary Dwellings alla Biennale di Parigi del 1977. Yalter si imporrà contro il volere del direttore dell’esposizione affinché alle famiglie dei lavoratori sia permesso di visitare la mostra. Siamo negli anni ’70 e nessun altro sembra interessarsi a loro e alle loro condizioni di vita. L’opera intraprende successivamente un’altra evoluzione, trasformandosi in poster stampati e affiancati in un mosaico di immagini sul quale campeggia la scritta in vernice rossa Exile Is a Hard Job, declinata nella lingua di ogni Paese in cui viene di volta in volta esposta. Quel filo ideale che unisce i nomadi dell’Anatolia ai lavoratori immigrati di Parigi – e idealmente di ogni parte del mondo – arriva ora alla Biennale di Venezia dove le due opere, Topak Ev e Exile Is a Hard Job, saranno esposte per la prima volta insieme.
Intervista a Nil Yalter, premiata da Adriano Pedrosa con il Leone d'Oro alla carriera