(1977, India, 121')
In questo film regna una misura, una presa di distanza dall’emozione e dal giudizio morale che colpisce. Satyajit Ray non prende posizione sull’abulica inettitudine del re di Oudh, che passa il suo tempo tra danze, poesia e concubine senza interessarsi in alcun modo al governo del suo paese; non prende posizione sui suoi due nobili che si disinteressano completamente degli avvenimenti reali per immergersi nell’ossessione degli scacchi; non prende posizione sugli inglesi che reggono la Compagnia delle Indie e praticano una forma di potere asettico e di algida diplomazia (almeno nel film…). Il mondo sta crollando ma nessuno sembra accorgersene, in uno sforzo incessante di evadere dalla realtà e dai giochi spietati della storia attraverso l’arte, il gioco, l’arroganza politica. E forse ci aiuta il tempo in cui Ray colloca la sua storia: siamo nel 1856, un anno prima di quello che verrà definito come il “Grande Ammutinamento Indiano” (da parte inglese) e “Prima guerra d’indipendenza” (da parte indiana), ossia una rivolta, una ribellione armata contro il potere coloniale britannico proprio da parte dei re indiani deposti. E fu proprio questa ribellione a causare la fine della Compagnia delle Indie Orientali e l’inizio del governo diretto della corona inglese. Ray è consapevole di girare un film in cui il mondo è a un passo dall’abisso e quelle fughe dalla realtà così lucidamente descritte nel film da parte dei potenti di ambo le parti, di lì a qualche mese, non saranno più possibili e la Storia ritornerà a parlare attraverso la violenza e la guerra.
F.D.S.