Ha curato numerose mostre monografiche, e i relativi cataloghi, di artisti contemporanei. Da alcuni anni i suoi progetti lo hanno riportato a Venezia, protagonista di mostre importanti e di aperture di nuovi, straordinari spazi per il contemporaneo, fra cui le acquisizioni di Nicolas Berggruen.
Venezia è diventata un hub che la porta ad essere capitale mondiale dell’arte contemporanea.
Quando è partito non pensava di ritornarci a vivere e lavorare, nonostante fosse nato e cresciuto a Venezia e nonostante la sua famiglia fosse molto conosciuta in città, con un padre, Attilio Codognato, recentemente scomparso, gioielliere d’altri tempi, famoso per il suo impeccabile gusto, la sua creatività e l’amore per il mondo dell’arte e la passione in particolare per quella contemporanea. La casa del padre, infatti, è un vero e proprio museo privato d’arte moderna e contemporanea, dove Mario Codognato ha avuto il suo primo imprinting. Dopo gli studi in Storia dell’arte e le prime esperienze importanti a Londra, ha iniziato a lavorare come curatore lasciando un segno significativo al Madre di Napoli, alla 21er Haus del Belvedere di Vienna (2014–2016) e in moltissime altre istituzioni museali di livello internazionale. Ha curato numerose mostre monografiche, e i relativi cataloghi, di artisti contemporanei. Da alcuni anni i suoi progetti lo hanno riportato a Venezia, protagonista di mostre importanti e di aperture di nuovi, straordinari spazi per il contemporaneo. Sì, perché dopo Anish Kapoor Foundation nel 2022, di cui Codognato ha diretto l’apertura a Palazzo Priuli Manfrin, ora chiuso per ingenti lavori di restauro, quest’anno offre il suo valido aiuto a Nicolas Berggruen curando in particolare il progetto artistico di Palazzo Diedo, oltre che della Casa dei Tre Oci, le due sedi che il magnate tedesco ha acquistato e restaurato a Venezia. Lo abbiamo incontrato prima che tutto abbia inizio.
Lei sarà tra i protagonisti assoluti della scena che gravita attorno alla Biennale Arte 2024. La vedremo, infatti, come curatore di importanti mostre quale quella alle Gallerie dell’Accademia dedicata a William de Kooning, ma anche come direttore di Berggruen Arts & Culture, la cui apertura è da tutti attesissima. Quale il suo ruolo e apporto in questi diversi progetti?
Assieme a Gary Garrels curo la mostra su William de Kooning che le Gallerie dell’Accademia hanno deciso di dedicare a questo grande artista in occasione della Biennale. Una mostra che si focalizza sui due viaggi in Italia fatti da de Kooning, assolutamente fondamentali per lo sviluppo della sua arte, ma che potremmo al contempo tranquillamente definire “antologica” vista l’ampiezza dell’arco temporale al centro della nostra ricerca curatoriale, ossia il trentennio che va dalla fine degli anni ‘50 alla fine degli ‘80, poco prima della sua morte avvenuta nel 1997. Parliamo di un’esposizione con prestiti davvero eccezionali provenienti da grandi musei americani ed europei, un progetto di amplissimo respiro ed eccezionale qualità, che conferma l’importante e fertile percorso tracciato da un po’ di anni dalle Gallerie dell’Accademia proponendo esposizioni che guardino al contemporaneo negli anni scanditi dalla Biennale Arte, con uno sguardo quindi improntato più al nostro tempo rispetto alle epoche di solito al centro delle loro ricerche. Sono ovviamente onoratissimo di lavorare con un collega eccezionale come Gary Garrels e con la Fondazione de Kooning, molto attiva non solo negli Stati Uniti; lavorare all’organizzazione di una mostra di questo spessore è il coronamento di un sogno. Parallelamente, durante la settimana di vernici della Biennale inauguriamo Palazzo Diedo, che Berggruen ha acquistato per farne un centro espositivo contemporaneo, con attività legate anche alle residenze d’artista. Una nuova Fondazione e un nuovo orgoglio per aver restituito alla città uno dei suoi palazzi più monumentali, di fatto abbandonato negli ultimi anni a causa dello spopolamento del centro storico. Palazzo Diedo aveva ospitato infatti prima una scuola e poi una sede del Tribunale, simboli che testimoniano quella che era la vitalità sociale della città, infine dismesso e abbandonato; ora l’arte ha la possibilità di riportarlo in vita attiva e al contempo di rinvigorire il tessuto relazionale di Venezia.
Durante la settimana di vernici della Biennale inauguriamo Palazzo Diedo, che Berggruen ha acquistato per farne un centro espositivo contemporaneo, con attività legate anche alle residenze d’artista. Una nuova Fondazione e un nuovo orgoglio per aver restituito alla città uno dei suoi palazzi più monumentali, di fatto abbandonato negli ultimi anni a causa dello spopolamento del centro storico.
In questo contesto quanto e in quali modalità concrete le nuove Fondazioni possono assumere un ruolo attivo nel rinnovamento della città, rovesciando l’idea di vetrina che ormai unilateralmente la connota, facendosi attori principali di un rinnovamento culturale, sociale e quindi anche politico, contribuendo di fatto a ridisegnare l’identità stessa di Venezia? Quali gli obiettivi prioritari che Berggruen Arts & Culture si è posta a riguardo?
Negli ultimi anni si sono sviluppate in città tante realtà differenti, con l’approdo in laguna di soggetti che hanno portato in dote sensibilità e approcci differenti al mondo dell’arte, che si sono poi riversati in attività intrecciate tra loro, molto variegate. Si tratta di soggetti privati che si aprono però al pubblico: credo sia proprio questa la cifra straordinaria e peculiare di questo fenomeno crescente nel cuore vivo del vissuto urbano, la possibilità cioè di poter osservare approcci culturalmente compositi capaci di porre all’attenzione del grande pubblico diverse sensibilità artistiche, tutte con diritto di cittadinanza e meritevoli di spazi propri. Da questo punto di vista Venezia è diventata oggi davvero un hub espositivo, ma non solo, che ne fa senza dubbio alcuno un’autentica capitale mondiale dell’arte contemporanea. Con Berggruen Arts & Culture sentiamo e speriamo davvero di poter essere parte integrante di questa offerta diversificata di cui la città si fa capace giorno dopo giorno; una diversificazione i cui ingredienti sono tenuti assieme dalla qualità, sempre e comunque altissima, che soggetti e mecenati di diversa provenienza e vocazione riescono comunemente a mantenere come tratto distintivo dei rispettivi percorsi e progetti. Per quel che riguarda nello specifico il progetto, anche attraverso l’attività del Berggruen Institute Europe, ente non profit votato allo sviluppo di nuove idee al confine fra arte, tecnologia, scienza e politica che ha la sua nuova sede alla Casa dei Tre Oci alla Giudecca, ha da sempre manifestato, se vogliamo coglierne un tratto peculiare connotante, nel proprio lavoro un forte interesse verso l’Oriente, la Cina in particolare, con un’attenzione quindi rivolta ad ambiti artistici che spesso non sono molto presenti nelle collezioni europee e italiane in particolare.
La sede dei Tre Oci si configura come avamposto europeo del Berggruen Institute che ha già sedi importanti a Los Angeles e a Pechino e sarà diretta da una figura di sicura eccellenza come Lorenzo Marsili, concentrandosi sugli aspetti filosofici e politici dei grandi temi contemporanei.
Caso più unico che raro, non solo a Venezia, poter vantare ben due sedi nella stessa città, ognuna caratterizzata da un indirizzo programmatico peculiare e unico nel suo genere. Quali le differenze, quali i punti di incontro, gli incroci semantici?
La sede dei Tre Oci si configura come avamposto europeo del Berggruen Institute che ha già sedi importanti a Los Angeles e a Pechino e sarà diretta da una figura di sicura eccellenza come Lorenzo Marsili, concentrandosi sugli aspetti filosofici e politici dei grandi temi contemporanei e portando avanti la propria attività di organizzazione di convegni e residenze per accademici. Naturalmente noi che siamo specificamente impegnati sul fronte del contemporaneo, dell’arte contemporanea, collaboreremo con loro il più possibile alla ricerca di sinergie e di punti di contatto tra la nostra attività e la loro, per mettere in comunicazione diretta gli studiosi delle diverse discipline umanistiche e gli artisti. Palazzo Diedo, come si diceva, sarà sede deputata ad ospitare progetti espositivi e a sviluppare le residenze d’artista. La nostra priorità in quest’anno di Biennale Arte è innanzitutto riaprire questo Palazzo, che necessitava di interventi massicci di restauro. Gli interni in diverse stanze importanti sono caratterizzati da cicli di affreschi del Settecento quasi tutti a soffitto; abbiamo quindi pensato di chiedere a undici artisti contemporanei di fama internazionale quali Urs Fischer, Piero Golia, Carsten Höller, Ibrahim Mahama, Mariko Mori, Sterling Ruby, Jim Shaw, Hiroshi Sugimoto, Aya Takano, Lee Ufan e Liu Wei di realizzare interventi originali site-specific, proseguendo in questo modo la tradizionale decorazione pittorica, magari utilizzando proprio le stesse tecniche del tempo, per dotare questi incredibili spazi di un corpus di opere che parlano certo di un meraviglioso passato e che però al contempo dialogano in maniera dinamica con il presente ed il futuro. Da lì è venuto poi abbastanza naturale chiedere a questi artisti se volessero esporre anche altri loro lavori nei tre piani del Palazzo, cosa che ha incontrato prevedibilmente la loro convinta adesione. La mostra è intitolata Janus e si accompagna a due progetti speciali presentati in collaborazione rispettivamente con The Kitchen di New York e con la Polaroid Foundation.
L’attività che animerà Palazzo Diedo sarà a cadenza biennale o più continuativa?
Di sicuro il programma espositivo guarderà per ovvi motivi con particolare interesse alla Biennale Arte e a quella di Architettura, ma ci sono tutti i presupposti perché il Palazzo sia sempre vivo, ogni anno e per lunghi periodi. Quando le residenze di artisti saranno attive, mi auguro dall’anno prossimo, certamente entro il 2026, il Palazzo sarà aperto tutto l’anno con residenze di sei mesi che ne scandiranno le attività. Un tempo Venezia viveva soprattutto nei mesi più caldi dell’anno ma adesso, con Biennali che durano otto mesi, per fortuna il letargo si è drasticamente ridotto, con un’offerta culturale che ormai non conosce sosta.
Una parte della Collezione Berggruen, ospitata in modo permanente al Museum Berggruen – Neue Nationalgalerie di Berlino, è protagonista dell’esposizione dal titolo Affinità elettive che ha inaugurato poche settimane fa ai Tre Oci e alle Gallerie dell’Accademia. Quali i contenuti e le finalità del progetto?
Heinz Berggruen (1914–2007), il padre di Nicolas, collezionista e filantropo di origini tedesche, è stato nell’arco di tempo compreso tra le due Guerre mondiali il mercante d’arte dei più grandi protagonisti della scena internazionale, da Picasso a Matisse, tanto per citarne due… Di origine ebraica, durante l’avvento del Nazismo si stabilì in Francia e verso gli ultimi anni della sua vita, in un’ottica di riconciliazione con la nuova Germania che si riaffacciava nel consesso democratico occidentale, decise di donare progressivamente parte della sua collezione alla città di Berlino. In Germania, molto più che da noi, si assiste a una commistione virtuosa tra pubblico e privato, in cui musei appunto pubblici ospitano opere facenti parte di collezioni private, con alcune opere che restano di proprietà della famiglia donatrice e altre che invece vengono acquisite a tutti gli effetti dal museo. Il Museum Berggruen di Berlino ha chiuso per interventi di restauro nell’ottobre 2022 e i lavori si protrarranno almeno fino al 2025. Facendo quindi di necessità virtù, il polo museale ha quindi organizzato un “tour” in Asia dei capolavori che lo compongono, che passa per Venezia prima di un’ultima tappa a Parigi. Assieme alle Gallerie dell’Accademia abbiamo pensato di intercettare questi straordinari capolavori di artisti del calibro di Picasso, Matisse, Klee e Giacometti per offrirli al pubblico in occasione della Biennale Arte, arrivando a concepire una mostra da poco inaugurata, per l’appunto, in due distinte sedi, alle Gallerie e alla Casa dei Tre Oci. Curata da Giulio Manieri Elia e Michele Tavola, direttore e curatore delle Gallerie dell’Accademia, e da Gabriel Montua e Veronika Rudorfer, direttore e curatrice del Museum Berggruen, la mostra è particolarmente interessante perché presenta 17 opere provenienti dal museo berlinese esposte alle Gallerie dell’Accademia in quello che è il percorso permanente di visita, in dialogo, quindi, con opere di epoche differenti, capolavori dell’arte veneta e non solo. Viene offerto al pubblico così uno straordinario confronto trasversale attraverso i secoli espressione di quelle che si possono definire, senza troppa retorica, delle autentiche affinità elettive, capaci di misurare ed esaltare il potenziale espresso dall’incontro di queste due importanti collezioni. Il percorso espositivo prosegue poi alla Casa dei Tre Oci alla Giudecca, dove il confronto si dipana attraverso il confronto ravvicinato tra quattro opere su carta della collezione grafica delle Gallerie dell’Accademia e ventisei acquerelli e opere su carta di Klee, Picasso, Cézanne e Matisse provenienti dal Museum Berggruen.
Un ricordo di suo padre Attilio, recentemente scomparso, e della sua incredibile attività e collezione, moltissimi prestiti della quale sono stati indiscussi protagonisti anche della recentissima mostra dedicata a Duchamp alla Collezione Peggy Guggenheim. Quale l’eredità che sente più viva del suo lavoro?
Ho avuto la fortuna di potergli stare vicino soprattutto negli ultimi anni. La mostra della Collezione Guggenheim è stata per me una bellissima sorpresa, che mi ha restituito l’ennesimo riscontro della ricerca profonda che mio padre ha portato avanti per tutta una vita, con quel corpus così ricco ed articolato di lavori di un artista così complesso quale fu senza ombra di dubbio Duchamp. Il grandissimo dolore per la sua scomparsa è in parte lenito ed affiancato dalla possibilità oggi di vedere concretamente maturare i frutti dei suoi insegnamenti e della sua sensibilità artistica anche grazie ad omaggi come quello della Guggenheim. Spero di poter portare avanti questa sua ispirazione per fare in modo che il più ampio pubblico possibile possa trarre beneficio, in un modo o nell’altro, dalla fruizione di quanto da lui costruito nella sua ultradecennale e inesausta ricerca.