Della mostra Ensemble a Palazzo Grassi impressiona la ricchezza dei dettagli e la complessità nascosta nella semplicità degli strumenti utilizzati per la creazione di dipinti potenti.
Gli spazi dell’arte possono diventare luoghi di meditazione che ci elevano al di sopra della banalità degli affari, di rifugio dalle minacce del tempo, ed è alla ricerca di un riparo per un’improvvisa tempesta, appena arrivato a Venezia, che ho trovato asilo tra le storiche e solide pareti di Palazzo Grassi. Con un cambio repentino d’animo per l’accoglienza dell’istituzione e dell’imponente spazio che la ospita, ho iniziato ad immergermi nello spirito della mostra Ensemble di Julie Mehretu, artista etiope naturalizzata statunitense. La scala delle opere è impressionante, in linea con il canone dell’Arte americana del Dopoguerra che, valorizzando i dipinti per le sue dimensioni, ne incentiva la produzione di enormi.
L’artista affronta la sfida di tele così grandi con l’aiuto di devoti assistenti che ne preparano il fondo con tratti di linee sottili, disegni tecnici di costruzioni architettoniche svuotate della loro materialità, sovrapposti su più piani e livelli arricchiti da stilizzate inserzioni geometriche colorate, sui quali Julie Mehretu costruisce le sue personali forme fatte di fraseggi all’inchiostro nero, accumuli di pennellate che vanno sfumando in forme di nebulose. Impressiona la ricchezza dei dettagli e la complessità nascosta nella semplicità degli strumenti utilizzati per la creazione di dipinti potenti per l’essenzialità delle scelte cromatiche minimaliste: sfondo crema, linee nere e pochi dettagli colorati, uno schema interrotto in alcuni opere, tra cui quella scelta per la divulgazione, in cui la policromia dello sfondo toglie invece che aggiungere al dipinto. Nonostante i discorsi dell’artista sulle sue motivazioni e ispirazioni che parlano di Africa, delle primavere arabe, del Cairo, i cui scheletri dei palazzi giacciono sullo sfondo, ciò che sento è una distanza incolmabile da quei luoghi che viene riempita dalla presenza dominante dello spirito della Modern America, la vera protagonista della poetica di Mehretu.
Sembra vedere rendering di disegni bidimensionali dei grattacieli che hanno reso famoso lo skyline di Manhattan attraversati da nuvole sporche di fuliggine, immagini che mantengono lo spirito progressista, dinamico, utopico del Dopoguerra. Si intravedono dell’epoca elementi di Frank Stella, Jackson Pollock, di Judd, fino a Cy Twombly, certamente familiari, dunque seduttori ma che, processati dalla speciale centrifuga di Mehretu, vengono trasformati in stupende composizioni originali e potenti che, nonostante i discorsi dell’artista sulla loro risoluzione formale, sono per me affascinanti per l’incompiutezza delle forme. Comprensibile dunque l’enorme e meritato successo dell’artista nella corporate America, che le ha procurato delle grandi commissioni, alcune delle quali presenti in mostra, l’hanno resa ricca e le hanno dato l’opportunità di restituire alla comunità una frazione di patrimonio, avendo Julie donato recentemente due milioni di dollari per garantire agli under 25 l’entrata gratuita al Whitney Museum per i prossimi tre anni.
Un’azione esemplare di un’artista che mantiene il contatto con la sua gente e una passione autentica per l’arte, come posso testimoniare personalmente avendola incrociata più volte in Arsenale a studiare i dipinti in mostra. La trappola comune in cui gli artisti che riscuotono successo di mercato rischiano di cadere è lo specchiarsi nella propria immagine e iniziare a copiare sé stessi. Per rompere con il complesso dello specchio e i suoi effetti, Julie e la curatrice Caroline Bourgeois inseriscono lavori di artisti invitati, Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Robin Coste Lewis, Tacita Dean, Paul Pfeiffer, e Jessica Rankin che contribuiscono in maniera determinante all’articolazione della mostra. Si distaccano con il loro discorso politico contundente i lavori di David Hammons, alcune stupende monotipie del suo corpo impresse su carta, il contrappunto povero alle complesse elaborazioni di Mehretu, ma anche opere realizzate con plastica inspirate ai lavori di Alberto Burri. Se nelle opere di Mehretu domina l’estetica modernista del grattacielo in armonia estetica con le sue hall di entrata che decorano senza disturbarne la razionalità, Hammons al contrario raccoglie lo spirito delle strade sporche dei loro scarti, ricordando ai collezionisti di entrambi la realtà che volentieri cancellerebbero.