Da trent’anni Nico Zaramella si inoltra fra i ghiacci per fotografare la natura selvaggia e ogni anno a Natale ci regala un reportage del suo ultimo viaggio. Questa volta la sua insanabile curiosità lo ha portato a cercare una delle creature più affascinanti dell’Artico, il lupo…
La fittissima pelliccia invernale è coperta da una spessa coltre di neve e ghiaccio e quando il maschio dominante si alza dal suo torpore si scrolla di dosso chili di cristalli nella luce languida ed ambigua del primo pomeriggio invernale. È un’esplosione magica di mille brillanti di ghiaccio, dominata al centro dall’imponente bellezza di questo affascinante e potente lupo
Da trent’anni fotografo orsi, lupi e pinguini. Non mi stancherò mai. Qui inizia e finisce qualsiasi storia della mia vita, perché tra amori, successi, insuccessi, e anche qualche fallimento, il denominatore comune del mio percorso esistenziale è, rimane, e penso rimarrà per sempre questo, almeno fino a che la vita me lo concede. È assolutamente vero: ho pensato di salvare il mondo, o meglio, il Pianeta, di salvare il mio ego e soprattutto ciò che amo più di me stesso. Mi sono accorto che questa disposizione è figlia di una serie di battaglie perdute, o forse di un mai sopito istinto adolescenziale. Battaglie perdute in partenza, perché bene o male mi sono accorto di essere, se non propriamente solo, certamente simile a una di quelle famose particelle atomiche perse all’interno di una altrettanto famosa acqua. Ci sono sicuramente altre persone come me, ma penso siano anch’esse diluite nella medesima, liquida agonia. Non abbiamo la forza di un esercito né di una rivoluzione culturale che cambia le sorti della storia, capace per inerzia, o per chissà quale altro motivo, di connettere, di coagulare chi la pensa allo stesso modo. Ma la coesione non fa la forza: somiglia piuttosto ad un impegno conflittuale gestito con mezzi che non convincono e non hanno alcun fascino, nessuna attrattiva, quindi incapaci di unire realmente. Perché? Sicuramente perché imbrattare la storia e bloccare il traffico è un pessimo biglietto da visita. È un comportamento che manca di qualsiasi “appeal” e si presta a una interpretazione logicamente disastrosa. Ma anche perché a questo agire solo apparentemente dirompente manca il potere di una carta vincente, quella della credibilità. Insomma, oltre alla teoria ed alla prova scientifica è necessaria la testimonianza e l’esperienza personale.
Così la mia ricerca – se non altro per goderne la prossimità, che è un dono della vita non da poco –, il mio pellegrinaggio sulle orme del lupo continua. Ancora una volta, perso nell’Artico, la mia insanabile curiosità, che sconfina con l’amore, mi porta a cercare il lupo d’inverno, forse il soggetto più affascinante della socialità animale. In queste pagine ho già parlato di lui cercando a mio modo di rivendicare il suo diritto di essere e non solo di meramente esistere. Ma oggi io rivendico qui il diritto di guardarlo, di farmi guardare, di sentire il suo sommesso ululato, ma anche di condividere questo insopportabile, avverso ambiente e di immaginare un poco, solo per un poco, come se fosse un gioco, di far parte del suo pack, del suo branco, della sua famiglia allargata. Un gioco con una scadenza a cui vale però la pena di partecipare, come se fosse un ricostituente del pensiero: essere parte del branco di lupi non significa essere branco di pecore, mucche o altro, significa al contrario essere parte di un gruppo sociale con singole investiture e distinti ruoli, depurato da qualsivoglia inquinamento o doppio senso.
Come sempre pensando assai e parlando poco, con uno sparuto manipolo di compagni provenienti un po’ da ogni dove, ancora una volta me ne sto a 40 gradi sotto zero, circostanza ambientale che va a braccetto con la disumana sofferenza e con l’illusione che la temperatura del Pianeta non sia poi così alta. Penso al lupo, vedo il lupo anche quando non c’è, ma penso anche che tutto sta andando progressivamente molto male. Sì, tutto va decisamente molto male. Da oltre vent’anni vado a passeggio nell’Artico e ogni anno c’è meno ghiaccio, ci sono meno colonie di uccelli, meno orsi e tanti più guai. C’è più caldo. Ed è inutile spiegarlo a “mister President” “X” o “Y”, perché a questa nitida, netta percezione fisica, conseguenza di un tangibile, drammatico mutare delle condizioni ambientali, non corrisponde ancora un numero “sufficiente” di martiri in grado di produrre uno choc mediatico nei più, ma soprattutto questa mutazione climatica inconfutabile non eserciterà il suo appeal (sic) fino a quando non si trasformerà in un effettivo, catastrofico tracollo economico e quindi in disaffezione politica. A fronte di questa ottusità sazia, personalmente non posso allora che incollarmi ai miei totem. Sono l’incarnazione della mia speranza, accompagnata dalla consapevolezza che loro rappresentano il simbolo scelto dall’uomo per il bisogno che lo anima di scontare i propri ben riconosciuti peccati con un “transfer”, che da gioco fanciullesco o fiabesco si trasforma nell’orma profonda di un credo politico. Noi non rinunceremo mai più all’idea di essere sul Pianeta per un motivo irrazionale a favore della semplice e logica consapevolezza di essere una più o meno diretta evoluzione delle scimmie. Noi non rinunceremo più alla convinzione che sofferenza e morte sono solo un pedaggio da pagare al casello autostradale per dirigersi verso l’eternità, soprattutto non rinunceremo mai all’idea che qualcosa di positivo succederà per giustificare utilmente un modo di vivere così distruttivo.
Il coacervo ecologico di un predatore non si trasformerà mai nell’ecosistema di esseri umani “predabili”. I predatori nascono come tali. Hanno un ristrettissimo spettro alimentare: il loro apparato digerente, a cominciare dalla dentizione, è ultraspecializzato, la loro struttura muscolo-scheletrica è perfettamente conformata alla necessità di sopravvivenza che comporta forza, velocità e resistenza. Non sopravvivono senza il loro cibo proteico animale a costo di digiunare per lungo tempo, ma soprattutto sono pochissimi rispetto alle loro fonti alimentari. Di conseguenza sono perfettamente adattati all’ambiente che non modificano, pena l’estinzione, in alcun modo, non sfruttandolo mai, tanto da essere in grado di regolare/controllare la riproduzione, quindi la loro stessa popolazione, in modo da non incidere troppo sull’ecosistema, pena, ancora una volta, l’estinzione. In altri termini si sono guadagnati la definizione e il diritto di essere dei predatori alfa, occupando in quanto tali l’apicalità ecologica perché espressione di una necessità ecologica, in quanto senza di loro l’ecosistema imploderebbe.
Eccoci qui, dopo l’ennesima e buia alzataccia e la vestizione polare, casco e occhialoni, a muoverci comunque intirizziti in sella alla motoslitta. Ogni due ore ci dovremo fermare per accendere un fuoco con qualche superstite sterpaglia della taiga per poi ingurgitare un po’ di calorie e scaldarci le mani, poiché, nonostante i guanti da sbarco lunare, le dita dopo 30 o 40 minuti diventano insensibili e guidare, o anche solo tenere in mano e comandare la macchina fotografica, non è affatto facile e dietro l’angolo vi è concreto il rischio di congelamento. Sappiamo di poter percorrere 10 chilometri o al massimo 15 prima del punto di non ritorno. Più in là sarebbe un bel guaio. La temperatura calerà ancora di più, il carburante finirà e i rischi aumenteranno in misura esponenziale. Quindi occhio al GPS, perché non è affatto certo né che usciremo dai guai da soli, né che qualcuno avrà voglia di farlo al posto nostro. Improvvisa, oltre ogni speranza ragionevole, nella neve che ci sbatte letteralmente contro e che ci costringe a cambiare gli occhiali protettivi ogni mezz’ora (perché con gli occhiali congelati non ci si vede proprio), ecco l’apparizione, o meglio, la sensazione (sarà un miraggio?) di vedere una coda svettare. Non una coda qualsiasi, ma una coda felice. L’uomo non ha la coda; è altra cosa, è anatomicamente e fisiologicamente costruito per essere un onnivoro prevalentemente vegetariano. La sua struttura anatomo-scheletrica lo rende lento, debole, scarsamente resistente. Non sopravvive più di tanto al digiuno; è costituito da grasso e proteine tanto da renderlo una ricca ed appetibile fonte nutriente, ma soprattutto l’umanità ha una densità demografica così alta da superare di gran lunga quella degli ungulati (in Europa ci sono a spanne 20 milioni di ungulati e 500 milioni di esseri umani). Quindi è una preda ed è predabile. E invece no, l’uomo, ancorché privo di ogni strumento naturale per essere un predatore, non sottostà alla regola aurea dell’ecosistema: non vuole essere mangiato e vuole mangiare molto. Non è un caso che una parte della popolazione mondiale mangia fino a morirne e getta via almeno un terzo se non più delle risorse naturali – non solo il cibo –, mentre un’altra parte della popolazione mondiale mangia così poco ed è incapace di gestire le risorse tanto da morire per la ragione contraria, ma naturalmente ed ugualmente anch’essa non desidera essere mangiata… Si tratta della dimostrazione pitagorica dell’incapacità dell’homo sapiens di adattarsi all’ecosistema: da una parte si muore per l’eccessivo sfruttamento, dall’altra si muore per l’incapacità di adattarsi al sistema. Ma in entrambi i casi l’uomo non vuole essere mangiato, no. Ergo, in un mondo dove il più vecchio, il più malato, il più lento, il più inetto è preda, si assiste parallelamente al sovrappopolamento di una umanità che sfrutta a dismisura il pianeta in una sorta di inversione (o è perversione?) dell’idea basica di evoluzione e di ecologia. Naturalmente il tutto incensato, edulcorato da novelli “savonarola”, predicatori i quali ritengono e comunicano ai quattro venti che gli otto e più miliardi di umani “stanno larghi” in un Pianeta che ne può ospitare dieci e, perché no, dodici (chissà sulle basi di quali fonti), salvo affannarsi, in caso servisse, a trovare qualche più o meno lontano ed improbabile pianeta dove esiliare una parte dell’umanità e delle immondizie eccedenti che abbiamo grassamente prodotto.
Nel frattempo abbiamo la certezza che quella è proprio una coda e che appartiene proprio a uno di loro. Iniziamo un lentissimo avvicinamento, anche se l’impressione direi chiarissima è che il branco – nove stupendi lupi – sia totalmente indifferente alla nostra presenza. Non siamo prede (non lo siamo mai stati, alla faccia degli stupidotti grafomani da social o di certi stravolti politici ed amministratori) ed è probabile che la loro tranquillità dipenda da un abbondante pasto appena condiviso. O forse iniziano a sviluppare la capacità di percepire, di distinguere l’uomo cattivo dall’uomo buono: l’alfa e l’omega della coesistenza. Pertanto hanno deciso di continuare a dormire sotto la neve, alcuni giocando ed esercitandosi, di tanto in tanto, nei segni che contraddistinguono il rango. Ma non è il caso di avvicinarsi troppo con le motoslitte: se uomo e lupo hanno, in qualche strano modo, un senso comune, motoslitte e lupo proprio no. La decisione unanime è quella di affrontare vento, freddo e neve a 200 metri dal branco. Percorriamo prima un centinaio di metri a piedi; piccola sosta, poi altri 50 metri per arrivare ad una distanza buona per poter cominciare a fotografare e a riprendere, anche perché uno dei miei compagni, di cui non faccio il nome, è un famosissimo documentarista, tanto bravo quanto scatenato. Arrivato a 100 metri mi fermo e continuo a pensare alla ragione per la quale abbiamo deciso di aspettare almeno una mezz’ora in silenzio prima di continuare l’avvicinamento. Semplice: i lupi sono bravissimi a comunicare senza chiasso, anzi nel silenzio più assoluto, e quindi così dobbiamo fare anche noi. Il pack continua a dormire e i pochi risvegli sono un’esplosione di fuochi di artificio. La fittissima pelliccia invernale è coperta da una spessa coltre di neve e ghiaccio e quando il maschio dominante si alza dal suo torpore si scrolla di dosso chili di cristalli nella luce languida ed ambigua del primo pomeriggio invernale. È un’esplosione magica di mille brillanti di ghiaccio, dominata al centro dall’imponente bellezza di questo affascinante e potente lupo. Eppure lui è perfettamente in grado di gestire un gruppo famigliare, concertando la sua composizione, la riproduzione, il procacciamento del cibo, l’accesso all’alimentazione e la sua cadenza. Consumeranno poco, il necessario, ma soprattutto consumeranno tutto senza gettare nulla, adempiendo al loro ruolo naturale di equilibratori dell’ecosistema. Dove il branco è presente non c’è “troppo di…”; tutto viene riportato ad un ordine naturale perfetto. Stupidissimi uomini, imbecilli possessori di poveri animali che verranno sacrificati per imbandire inutili banchetti natalizi o pasquali, uccidono a caso i lupi. Talvolta uccidono il maschio dominante, disperdendo il branco non più controllato dal sapiente comandante, facendo sì che ogni lupo “disperso” andrà a uccidere a caso, solo per soddisfare sé stesso, senza alcuna consapevolezza del suo ruolo in un insieme collettivo che non esiste più. Uomini stupidi, conseguenze regolarmente disastrose.
I nostri lupi sono sempre lì e noi ci sentiamo baciati in fronte da questa inaspettata fortuna. Di fronte a noi forse il più autentico predatore alfa dallo sguardo intelligente e dall’espressione pensierosa. Dotato di una naturale ed indiscutibile bellezza, esiste e sa di esistere. Dimostra di essere consapevole e pienamente competente della sua posizione rispetto a ciò che lo circonda. In verità, e diversamente da quanto talora si legge, la nostra esperienza sul campo ci fa vedere il più giovane del branco super coccolato dai maggiori e dai genitori. Vedremo nei giorni a seguire, nel corso dei quali non abbandoneremo mai il branco (o il branco non abbandonerà noi?), animali molto più umani di noi, naturalmente giocosi, spontaneamente rispettosi e silenziosi, sempre pronti a toccarsi, sfiorarsi, leccarsi per comunicare e stabilire al contempo affettività e rango. Insomma, un essere superiore di cui respiro la stessa aria e condivido il territorio, in punta di piedi, cercando di non fare troppo rumore. Alla ricerca di una amicizia, il cui nome corretto potrebbe essere coesistenza, che forse loro vorrebbero e che noi non troviamo spesso nemmeno tra esseri della stessa specie.
Io sto con loro, io sto con il branco, fino alla fine.