Dal 23 gennaio al cinema l’attesissimo biopic sul menestrello di Duluth, interpretato da Timothée Chalamet.
Dylan è uno, nessuno e centomila. Sì, ha ragione Fabio, il nostro caro FDS, a cui abbiamo affibbiato come sempre un compito bello arduo qui accanto, a chi altro se no? Quando gli abbiamo chiesto di calare giù la sua playlist pescando dalle sacre scritture della discografia del secolo breve versante rock’n’roll e dintorni, ossia quella del buon Bob, il tutto in occasione dell’imminente uscita del biopic a lui dedicato, si è prodotto meccanicamente ed autenticamente al tempo in una delle sue proverbiali smorfie, come a dire: ma dai, che vuoi altro si possa dire, o meglio, selezionare ancora tra l’infinito canzoniere del custode del Tempio? È un po’ come scegliere le magnifiche cinque creazioni del da Vinci o le cinque migliori composizioni di Ludwig van, su! Eppure sapevo che sfidarlo su un terreno introduttivo di così urticante retorica poteva comunque valerne la pena, perché superata la noia sarebbe venuta la scintilla. Ed eccola allora, sì, qui di fianco la fiamma distribuita in cinque bracieri, con una personalissima e altamente arbitraria selezione delle 5 più brutte canzoni composte e incise da Bob Dylan. Che altro? Uno, nessuno e centomila permette almeno di poter vivere e rivivere questa incredibile vicenda artistica occidentale così, se ci e vi pare, liberamente, pure cazzeggiando, yes! A Lui piacerebbe una simile disposizione, ne sono certo, a prescindere dagli esiti.
Ad ogni modo, tornando ora allo spunto che ci ha portato a costruire questo divertente gioco in musica qui di fianco, vale a dire l’uscita dell’ennesimo biopic, A Complete Unknown (inutile dire da dove è stato pescato questo titolo, giusto?), sulla rockstar di turno, genere oramai in esondante e perenne piena, che mai aspettarsi da un racconto in immagini che pretenda di fermare, almeno parzialmente e per un suo circoscritto periodo (e che periodo!!), la vicenda artistica ed esistenziale del più iconico, del più raccontato e citato autore rock di sempre, che più se ne parla e più si fatica a farlo proprio? Un certo coraggio ci vuole, dai, anche se l’argent est l’argent e quindi la sfida sarà valsa la candela per il buon James Mangold, già per la verità autore di un altro tra i pochi, riusciti biopic, quel Walk The Line dedicato a the man in black Johnny Cash e interpretato dall’inarrivabile Joaquin Phoenix.
Vietato essere prevenuti però, perché non si sa mai, e poi, al netto di una sana e non di rado stizzosa diffidenza che tutti noi in fondo proviamo quando ancora qualcuno crede di poterci riraccontare le mutevoli imprese di una qualche leggenda musicale, addirittura vivente in questo caso, voglio vedere chi tra noi rocker e non solo non correrà in sala come una gazzella nella savana a divorarsi il film! Certo, ripercorrere il quinquennio fondativo del percorso artistico di Robert Zimmerman, dalla sua prima calata nella Grande Mela senza un centesimo in tasca alla travolgente immersione nell’irresistibile epopea del Village, tra Cafe Wha? e Chelsea Hotel (che col Village non c’entra, ma c’entra…), fino alla svolta elettrica al Newport Folk Festival 1965, con Pete Seeger e compagnia indignati per il tradimento del dettato folk consumato dal Nostro (e volarono altro che stracci!), il tutto senza proprio farsi mancare nulla dell’abc della letteratura biografica dylaniana, ivi compresi gli amori con Suze Rotolo (immortalata allora e per sempre abbracciata a Bob nella copertina di The Freewhelin’, suo secondo album, quello della prima consacrazione) e Joan Baez, ripercorrere, insomma, il lustro in cui davvero l’intera cultura giovanile occidentale ebbe il suo battesimo senza neanche immaginare di percorrere qualche direzione più laterale, magari, che so, la crisi dei ’70 con la relativa conversione cristiana, beh, sì, ci vuol proprio coraggio. Insomma, come presentarsi a mani nude di fronte a un plotone di critica esecuzione.
Sì, perché ripeto, cercare di fermare Dylan in un racconto compiuto, organico, è davvero un qualcosa che rasenta l’assurdo. Non è un caso che forse gli unici due lavori filmici davvero riusciti a riguardo sono stati il doc No Direction Home (2005) di Martin Scorsese, dove il grande cineasta newyorchese riesce nell’inaudita impresa di far parlare Dylan per qualche ora (!!), il quale più favella e più ci porta in un indefinito, frammentario altrove, e il davvero geniale I’m Not There (2007) di Todd Haynes, il quale ebbe la folgorante intuizione che l’unico modo di restituire questa inafferrabile, a dir poco multiforme, identità artistica e umana sarebbe stato quello di restituirla attraverso diversi interpreti, tra cui spiccherà, guarda un po’, un’attrice femminile, Cate Blanchett, capace di avvicinarsi anche proprio visivamente più di qualsiasi altro al custode del Tempio. Già, perché entrambi, chi dandogli direttamente voce, chi disegnandolo attraverso un fitto delta interpretativo di rara incisività, sono riusciti prima a capire e poi a restituire il personaggio nell’unica modalità possibile, ossia quella di sottrarsi a qualsiasi narrazione a tesi, a qualsiasi presunzione di sintesi di un percorso irriducibilmente sfuggente. Ciò detto, si parla di una straordinaria interpretazione di Timothée Chalamet, il quale addirittura ha accettato di cimentarsi direttamente nel cantato. Complimenti per l’ardire, intanto. Noi nel frattempo, dissimulando la cosa in maniera assai poco credibile, siamo qui a scandire devoti il count down.