In occasione dell’uscita nelle sale del biopic di James Mangold, A Complete Unknown, vi proponiamo una playlist di Bob Dylan, ma delle sue canzoni più brutte… o presunte tali.
Perché l’assunto di partenza è che Bob Dylan sia qualcosa di diverso da un musicista rock, sia pure sommo. O meglio, un’entità scorporata dal tempo, fuori dalla Storia. In qualche maniera Dylan è e rimane il custode del Tempio della Musica Popolare. Ne ha celebrato tutti gli snodi essenziali, quelli che l’hanno resa quella che è stata ai suoi massimi livelli: la musica pura e antagonista della critica sociale in mano alla borghesia di sinistra americana. Dylan è stato innumerevoli cose contrastanti e non codificabili: il traditore che ha causato la svolta elettrica dal folk al rock, spostando analogamente il focus critico dalla coscienza politica alle visioni poetiche più spietate, il menestrello inquadrato nei ranghi che si trasforma nella voce d’America più cinica nel rappresentarne i difetti e le allucinazioni croniche… Nessuno come lui ha saputo esprimere al meglio quell’alchimia per cui dei ritmi primitivi si mescolano ad accordi elementari e a dei testi visionari che è il centro pulsante della musica popolare dalla seconda metà del Novecento.
È per questo che una playlist di Bob Dylan è un nonsense, un trucco intollerabile; non perché non sia possibile mettere una dietro l’altra le sue canzoni più famose e corredarle di un commento fuggevole, ma perché questo sarebbe un affronto al suo essere “fuori dal tempo” della storia. Mago, sacerdote, poeta, cinico joker, interprete appassionato e svogliato del Grande Canzoniere Americano, Cristo e Giuda nello stesso tempo, Dylan è uno, nessuno e centomila. Sarà per questo che, quando gli ha dedicato un film, Todd Haynes ha pensato bene di farlo interpretare da sette attori differenti. E quindi di seguito vi sottoponiamo, sì, una playlist di Bob Dylan, ma delle sue canzoni più brutte, quelle che ancor oggi sembrano sfidare il tempo per la loro (presunta) inconsistenza. Con l’avvertenza che la loro bruttezza non è frutto di un errore, di un bersaglio mancato, di un temporaneo sonno del genio musicale, ma piuttosto di una distrazione, di una voglia improvvisa di giocare, o forse dell’ennesima provocazione del custode del Tempio.
I Forgot More Than You’ll Ever Know
(da Self Portrait, 1970)
Ok, non l’ha scritta lui, ci mette solo quel tono nasale da crooner dei bassifondi che ha inaugurato con l’album Nashville Skyline. Nel recensire Self Portrait su Rolling Stone, Greil Marcus iniziò così il suo articolo: “What’s this shit?”. Dylan ha sempre sostenuto che la bruttezza dell’album gli servì per liberarsi di tutti quei fan ossessionati dal ricordo del suo passato di integerrimo cantore del mondo folk e che ancora vedevano in lui il “portavoce di una generazione”. Utilizzare un disco per sistemare i conti col suo passato: solo lui è stato capace di farlo.
Spanish Is the Loving Tongue
(da Dylan, 1973)
In questo brano il Nostro insiste troppo su elementi parodistici così evidenti e pacchiani (i tocchi spagnoleggianti della chitarra, la voce da crooner ad elevato tasso alcolico, i coretti glicemici) per non far nascere il sospetto, che diventa certezza, di una magnifica provocazione. Il disprezzo di Dylan nei confronti della sua stessa musica, quelle centinaia di concerti dove ha massacrato le sue canzoni più famose in nome del suo amore sfrenato per il situazionismo emotivo: un altro aspetto essenziale della sua personalità.
Tempest
(da Tempest, 2012)
14 minuti di banale ballatona folk a descrivere l’affondamento del Titanic. A parte qualche critico (sempre Greil Marcus), la maggior parte delle recensioni hanno stroncato pezzo e album. In realtà la voce del Nostro ad un certo punto assume un fascino ipnotico ed il testo, sebbene lontano dalle apocalissi visionarie dei tempi passati, ha una sua elementare semplicità che commuove.
Ballad in Plain D
(da Another side of Bob Dylan, 1964)
È considerata probabilmente la sua canzone più brutta. Vi si trovano versi come questo “Con l’innocenza di un agnello, lei fu gentile come una cerbiatta”. In realtà è una delle pochissime canzoni autobiografiche di Dylan, specificamente sulla fine della sua storia con Suzie Ruotolo.
Wiggle Wiggle
(da Under the Red Sky, 1990)
Indifendibile, sul serio.
They Killed Him
(da Knocked Out Loaded, 1986)
La canzone mette insieme Gandhi, Luther King e Gesù Cristo come martiri della cattiveria e dell’ottusità del mondo. Arrivare alla fine del pezzo è impresa ardua.
Man Gave Names to All the Animals
(da Slow Train Coming, 1979)
Il 1978 fu un anno durissimo per Dylan, ogni sua impresa creativa veniva sommersa dai fischi e dalle stroncature dei critici (nell’ordine: l’uscita del suo film Renaldo e Clara, la pubblicazione del disco Street Legal e del live At Budokan). Una sera, durante un concerto a Montreal, uno del pubblico lancia sul palco una croce d’argento. Dylan la raccoglie e pochi giorni dopo, in una stanza d’albergo di Tucson, gli appare Dio. È l’inizio della sua conversione e della Christan trilogy, di cui Slow Train Coming è il primo capitolo.