Snodandosi attraverso nove sale, la mostra dedicata all’artista cileno protagonista del Surrealismo va oltre la superficie delle opere, per vagare nell’irrazionalità dell’inconscio.
«L’energia visionaria di Matta […] è il prepotente senso della commedia […] quell’elemento di spietata trasfigurazione sarcastica contemporanea […]. Una forza primordiale, così che per lui dire commedia equivale a dire tragedia, cioè la messa in gioco d’un impegno umano totale, l’esplosione di un entusiasmo di energie storico-vitali inesauribile». A scriverlo fu Italo Calvino nei primi anni Sessanta, in occasione di una mostra a Roma alla galleria L’Attico. Non stupisce che un poeta dell’immaginario quale fu l’autore delle Città invisibili fosse rimasto imbrigliato da tali visioni epiche risalenti a civiltà persino precolombiane. Quella allestita a Venezia nel Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro è la prima, importante esposizione istituzionale dedicata in Italia all’artista cileno, di origini basche, cittadino del mondo che visse a Parigi, lavorò con Le Corbusier, incontrò Garcia Lorca, conobbe Dalì, fu affascinato da Breton e trascorse i suoi ultimi anni tra Parigi e Tarquinia. Una mostra che punta a restituire all’eclettico, visionario, poliedrico pittore, scultore, architetto, designer, una dimensione completa d’artista a tuttotondo.
Roberto Matta 1911-2002, curata da Norman Rosenthal, Dawn Ades ed Elisabetta Barisoni, snodandosi attraverso nove sale, a partire dal monumentale Coïgitum del 1972, svela una sorta di viaggio dalla bidimensionalità del quadro alla quarta dimensione della mente; un percorso che va oltre la superficie delle opere, per vagare nell’irrazionalità dell’inconscio. Protagonista del Surrealismo, di cui quest’anno si celebra il centenario, nelle sue tele, sin dalla fine degli anni Trenta, Matta riconsegna all’automatismo psichico puro, teorizzato da André Breton quale espressione visiva del “reale funzionamento del pensiero”, un ruolo fondamentale all’interno della convenzionale opposizione tra figurativo e astratto. Erano gli anni in cui, dall’Europa in guerra, i surrealisti si rifugiarono a New York, e proprio il cileno fece conoscere a Pollock, Motherwell, Baziotes e Lee Krasner il disegno automatico. Una libertà gestuale che gli consentiva, attraverso la pittura a olio, di superare i contorni del disegno e di lasciare galleggiare le forme in uno spazio indistinto. «Ho messo il bianco e fatto piccoli passaggi, l’ho accarezzato come una pomata. Credo fosse il subconscio in uno stato liquido, uno stato di combustione». Un pensiero che svela, prestate dal Moma di New York, opere quali Here, Sir Fire, Eat del 1942, o dall’Art Institute di Chicago Wound Interrogation del 1948. Morfologie psicologiche che diventano inquietanti visioni capaci di celare il suo impegno politico, come nel caso della guerra in Algeria che si nasconde dietro a La Question del 1958, un grido contro gli orrori nazisti che sempre più emergevano allora, o la grande tela Chasse aux adolescents, riflesso della sua adesione al maggio parigino del 1968. Figure che sembrano personaggi dei fumetti, armati per una battaglia spaziale combattuta con la playstation, dove il pennello diventa il joystick che trasforma le sue guerre stellari in una sorta di passeggiata visionaria di street art.
Quale inesauribile e curioso cittadino globale, Matta non poteva non essere presente a Venezia. Infatti dal suo debutto lagunare legato allo sbarco di Peggy Guggenheim alla Biennale del 1948, dove anche lui presenziò nella storica mostra allestita nel Padiglione della Grecia, di nuovo vi tornò nel 1953 per l’esposizione organizzata dalla Galleria del Cavallino sotto l’egida di Carlo Cardazzo al Museo Correr. In quell’occasione il Comune acquistò Alba sulla terra, destinandolo alla collezione di Ca’ Pesaro. L’impegno che riversò nelle cause politiche lo vide in prima linea a interpretare anche le tematiche ecologiste o di sostenibilità, alludendovi con ironia attraverso i soggetti che pullulano nelle sue enormi tele, o persino realizzando allestimenti nel rispetto del riciclo e del riutilizzo dei materiali. In una sorta di quarta dimensione si muovono gli oggetti di design, dove le forme delle sedute Malitte in poliuretano sembrano uscite dalla grande tela retrostante per suggerire un variopinto Paradiso terrestre a disposizione dei visitatori, proiettandoli nel mondo stroboscopico della fantascienza.