Una tradizionale, luminosa ricorrenza popolare che si fa simbolo di rinascita, orgogliosa celebrazione delle radici più profonde della città. Un ritorno alla normalità, una città che ritrova sé stessa riflettendosi nella sua storia, rigorosamente naso all’insù.
La notte di mezza estate, torrida, afosa, affollata, chiassosa, ma pur sempre bellissima, in cui tradizione vuole che gli occhi guardino necessariamente all’insù per ammirare una lunga teoria di fuochi d’artificio, che si librano nel cielo sopra Venezia, è un appuntamento fisso, che riscuote sempre un successo incondizionato. La tradizione sancisce il perpetrarsi di gesti sempre uguali negli anni, come l’attraversamento del ponte di barche da Zattere al Redentore in una sorta di pellegrinaggio tra il sacro e il profano, la visita nella chiesa omonima, che per un fine settimana diventa protagonista assoluta della città, scoprendone le forme austere ed eleganti, volute da Andrea Palladio, le numerose imbarcazioni che accolgono un popolo di marinai della domenica, pronti ad affrontare le ore di attesa dei foghi tra bevute cospicue e cibi preparati in anticipo, e non solo bigoi in salsa o anatra in tecia, come dovrebbe essere da filologia alimentare serenissima, con l’immancabile anguria, ma con ogni varietà di cibo, in un’anarchia alimentare divertente e volutamente trasgressiva nel suo scavalcare le regole.
I foghi pareva ghirlande de fiori, el rosso col verde faseva un bel sogo iluminando Venesia de mie colori el Canal dea Giudecca pareva de fogo
La festa del Redentore, più di ogni alta, sancisce una sorta di patto legato all’unicità che suscita deferenza tra Venezia e il resto del mondo. Venezia diventa un oggetto da ammirare incondizionatamente, almeno per un’ora, e tutto diventa un’iperbole del sublime, quasi ci fosse bisogno di dare al già unico la patente ulteriore di ancor più bello. Un cielo dipinto di infiniti colori, ogni balcone, terrazza, anfratto utile alla vista dello spettacolo viene occupato da un esercito su prenotazione di bipedi pazienti, che sottostanno a regole assurde, che ricordano da vicino quel proverbio che parla di chiudere la porta della stalla, dopo che i buoi sono scappati! La forza di Venezia, quella vera, prodotta da individui che ne sono rapiti dal fascino e con rispetto cercano di comprenderla, sin dalla sua storia, è in grado di stupire ancora un disilluso come me, quando apprende che amici stranieri ritornano nella loro Venezia solo per il Redentore, interrompendo la vacanza, per poi riprenderla, per non mancare all’appuntamento con la notte in cui i colori affollano di luci sempre diverse le architetture di un micro universo, in cui la geometria dei palazzi convive con il corso delle acque che silenziose segnano confini tra muri e storie di famiglie che nei secoli hanno saputo nutrire il loro entusiasmo nella vita collettiva a favore della città.
Questo filo spezzato non può ritornare teso solo in occasione di una festa, il legame deve riprendere vigore e riportare segni di vita reale, i fuochi sono artificiali, le nostre storie che si dovrebbero fondere in un afflato collettivo ora sono solo fiammelle debolissime, diafane e traballanti.