Parlare di improvvisazione jazz prendendo spunto da Music for Black Pigeons, documentario che Jørgen Leth e Andreas Koefoed portano a Venezia, Fuori Concorso.
Impresa quantomeno impervia. Pensate alle tonnellate di letteratura e di trattati realizzati, su questo tema, da autorevoli e illuminati studiosi, musicisti, storici.
Quindi inizio così: «You can’t improvise on nothin’, man. You gotta improvise on somethin’». “Non puoi improvvisare su nulla. Devi improvvisare su qualcosa” (Charlie Mingus). È d’obbligo citare Mingus nel suo centenario, i registi lo fanno e questo ci apre le porte, quindi. “Improvvisare su qualcosa” cosa significa? Prevenire? Progettare? Pianificare e programmare? Vado di getto e mi affiorano ricordi di letture, piuttosto recenti, di cui una alquanto affascinante, di cui purtroppo non ricordo ahimé né il titolo né il nome dell’autore, una di quelle letture di passaggio, dal web, a cui qui mi aggancio per l’analisi sociologica che articolava osservando la sospensione pandemica delle nostre vite ordinarie. Il nostro asseriva che negli ultimi decenni la storia globale è stata costellata da catastrofi ambientali, guerre, crisi economiche e ora, quindi, da una pandemia, i cui nefasti effetti hanno dimostrato l’impossibilità di poter prevedere (e prevenire) tutto, a dispetto di tutti coloro i quali erano e rimangono convinti che si possa sempre fare qualcosa di incisivo per difendersi da essi. È come se fossimo tutti impegnati nella ricerca di imbrigliare il futuro convinti di poterne sempre controllare gli esiti, futuro il quale, invece, come da tempo non capitava in maniera così spiazzante, si è dimostrato essere un cavallo imbizzarrito con alcuna intenzione di farsi domare.
È un ritorno alla potente musica jazz quello che Leth e Koefoed promuovono con questo documentario, il cui titolo recupera il singolo tratto dall’album Uma Elmo (2021). Cosa succede quando musicisti dalle diverse personalità, dai variegati retroscena culturali, co...
Quando si è immersi in un contesto sempre più imprevedibile si è ancor più ossessionati dall’idea di dover prevedere e controllare il futuro. Mai come ora la programmazione, la costruzione di visioni strategiche, lo studio di trend attraverso la statistica hanno avuto un ruolo così cruciale. Alla luce di questo mutato stato delle cose ciò che intende sottolineare il nostro “anonimo” autore è l’importanza che l’improvvisazione riveste in quanto strumento per la progettazione. “Progettare” significa letteralmente “gettare avanti, nel futuro”, un’azione ben più aperta all’imprevisto rispetto al “programmare”, che invece significa “scrivere il futuro”, chiudendolo in un testo definito. È per questo che l’improvvisazione si può solo progettare e non programmare.
Per comprenderne i meccanismi e le possibili applicazioni al lavoro sociale e di comunità ci rivolgeremo – grazie alle ricerche condotte da diversi autori negli ultimi decenni – ad un ambito in cui l’improvvisazione è stata studiata e praticata parecchio: il jazz. Come avrete capito mi sono fatto un po’ prendere la mano da questa elucubrazione, forse un po’ troppo, ma qui mi fermo per ritornare prontamente, per l’appunto, nel recinto più specifico del nostro interesse. Improvvisare è un’arte. Si può improvvisare sulla melodia, sul ritmo, su una progressione di accordi, ma non si parte mai da una tabula rasa. A questo dovrebbe servire la progettazione: fornirci una traccia su cui poter improvvisare, sperimentare e innovare. Lo abbiamo sentito dire milioni di volte che “non si nasce improvvisati”.
Il compositore Giancarlo Schiaffini sostiene perentorio: «L’improvvisazione non si improvvisa». Bisogna conoscere bene la teoria musicale, sapere quali note possono accompagnarsi tra loro, identificare il ritmo, le dinamiche, la tonalità di un brano. L’improvvisatore ha uno stretto rapporto con la storia della musica, con le improvvisazioni che altri hanno sperimentato precedentemente, con le regole e le prassi consolidate del proprio genere.
In altri termini, conosce il contesto in cui si muove e le sue norme.
«Cos’è il jazz? Amico, se lo devi chiedere…non lo saprai mai!» (Louis Armstrong)