Il Maratoneta

Lo scrittore Mauro Covacich racconta il suo ultimo libro, "L'avventura terrestre"
di Elisabetta Gardin
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Scrittore tra i più interessanti e per certi versi spiazzanti del panorama italiano, Mauro Covacich collabora con il «Corriere della Sera» e altre testate, è autore di radio-documentari e radiodrammi per la Rai, è stato docente di Scrittura creativa presso l’Università di Padova.

Nasce a Trieste, dopo la laurea in Filosofia, il servizio civile lo porta a Pordenone dove si trasferisce e inizia a insegnare nei licei. Esordisce nel 1993 con Storie di pazzi e di normali, cui fanno seguito Colpo di lama (1995), Mal d’autobus (1997), Anomalie (1998), La poetica dell’Unabomber (1999), raccolta di resoconti dei suoi viaggi in Italia come reporter, L’amore contro (2001), Trieste sottosopra. Quindici passeggiate nella città del vento (2006). Arriva poi il “ciclo delle stelle”, composto dai romanzi A perdifiato (2003), Fiona (2005) e Prima di sparire (2008). Tra i suoi ultimi lavori, L’esperimento (2013), La sposa (2014), La città interiore (2017), Di chi è questo cuore (2019), Sulla corsa (2021).
Nel 2017 La città interiore vince il Premio Brancati, mentre nel 2018 gli viene conferito il Premio Tomizza. È stato inoltre finalista al Premio Strega e al Premio Campiello.
Covacich è indubbiamente uno sperimentatore, spesso nei suoi racconti la finzione si mescola alla realtà in un intreccio d’autobiografismo e invenzione letteraria costruito con il suo consueto stile connotato dall’essenzialità, usando toni molto schietti in una forte tensione realistica.
È appena uscito ora il suo ultimo romanzo L’avventura terrestre, edito da La Nave di Teseo. Anche qui, in una scrittura asciutta, ritroviamo potenti suggestioni autobiografiche. L’autore quasi si sdoppia: da giovane spia il sé stesso adulto in un’avventura tragicomica.
La narrazione parte da un problema fisico del protagonista, un’improvvisa sordità per cui gli viene prescritta una tac al cervello, la cui attesa genera il panico. L’uomo di mezza età si fissa su tutto ciò che può capitare nel peggiore dei casi; in un interminabile weekend ‘sospeso’, oltre alle classiche ricerche di informazioni mediche online, iniziano gli inevitabili bilanci, i ripensamenti, in un continuo viaggio tra presente e passato. Accanto alla preoccupazione e alla paura, la vita esplode come sempre con tutte le sue contraddizioni, gli imprevisti, il lato comico inevitabile in ogni esistenza. Succede così di tutto: il protagonista finisce in una rissa, fa una lezione in uno scantinato, cade dalla bicicletta, sviene nei bagni di un museo, ma anche pensa al suicidio.

Ci racconti com’è nato questo suo ultimo romanzo. Perché va letto?
Un giorno mi è capitato di immaginare che cosa succederebbe se il ragazzo che ero venisse visitato dall’uomo che sono diventato. Ho cominciato da alcuni momenti cruciali della mia vita di ventenne e ho immaginato di vedermi da laggiù come sono adesso. Diciamo esattamente il contrario di un ricordo. Mi riconoscerei se mi incontrassi? Intendo se incontrassi quest’uomo di mezza età, magro, spelacchiato, che consuma la sua vita scrivendo? Quanta sarebbe la delusione e quanta magari la curiosità di avvicinarlo, di saperne qualcosa di più? Soprattutto se quel ragazzo cominciasse a intuire che quell’uomo di mezz’età ha molto a che vedere con lui? Sul perché vada letto il mio libro non ne ho la più pallida idea.

Nel 2005 da una piccola città del Friuli si trasferisce a Roma. Che cosa ha comportato per la sua scrittura questo cambiamento così radicale?
Io ho cambiato diverse città. Sono cresciuto a Trieste, ho vissuto più di dieci anni a Pordenone, poi un anno a Milano e infine eccomi qua, da quasi vent’anni a Roma. Il fatto è che non ho mai scelto questi cambiamenti, mi sono lasciato guidare dagli eventi della mia vita, in prevalenza eventi amorosi. Roma forse ha portato una maggior disposizione all’erranza, alla divagazione, a un passo più lento, certe volte casuale, comunque introspettivo.

Parlando sempre di città, Trieste torna spesso nei suoi romanzi. Una città del resto letteraria come poche altre. Lei ci è nato e ci è cresciuto. Che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta oggi per lei questo luogo di confine?
Trieste è una tara genetica. A lungo ho lottato per liberarmene, poi invecchiando ho cominciato a farci i conti in modo più sereno. Negli ultimi anni ho anche provato a cavarci fuori qualcosa di buono.

Dai suoi romanzi Anomalie, Fiona, A nome tuo sono stati ricavati spettacoli teatrali. Ha in cantiere altri progetti per il teatro?
A proposito di qualcosa di buono su Trieste, negli ultimi anni con il Politeama Rossetti, Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, ho scritto e interpretato due monologhi su Svevo e Joyce. Ora stiamo allestendo il terzo su Saba. L’idea è quella di costruire una sorta di trilogia intesa come corpo a corpo con i giganti che hanno vissuto nella mia città nel Primo Novecento, tre atti concepiti come un’autobiografia per procura.

Da A nome tuo è stato tratto anche il film Miele di Valeria Golino. Quale altro suo romanzo vorrebbe avesse una trasposizione cinematografica?
Questo appena uscito, L’avventura terrestre. Sarei curioso di vedere la scelta del regista per le due parti maschili, se sceglierebbe lo stesso attore invecchiandolo quando serve, o se invece opterebbe per due distinti interpreti. Insomma, se sceglierebbe di sottolineare la somiglianza o contrariamente la differenza.

La scrittura deve custodire nel gesto un tratto performativo, scrivere ha senso solo se comporta un arricchimento personale, solo se ci va di mezzo anche il corpo di chi scrive

Ha ricevuto vari riconoscimenti, è stato finalista allo Strega, al Campiello. Quanto può incidere nella crescita di uno scrittore un premio? È veramente così importante?
Premesso che io sono bravissimo a perdere i premi, diciamo ad arrivare secondo, si tratta di riconoscimenti che non ti fanno svoltare, tuttavia possono aiutarti nelle vendite e nelle traduzioni. Due cose assai importanti per chi vive di sola scrittura.

Lei è un artista che affronta accostamenti inusuali, percorsi originali, contaminazioni tra vari linguaggi espressivi, vedi ad esempio la videoinstallazione L’umiliazione delle stelle. Quali strade le piacerebbe percorrere che ancora non ha esplorato?
Non saprei dire. Io riporto tutto alla scrittura; per me anche correre la maratona sul tapis roulant era una forma di scrittura, era scrivere con il corpo. Per come la vedo io, la scrittura deve custodire nel gesto un tratto performativo; scrivere ha senso solo se comporta un arricchimento personale, solo se ci va di mezzo anche il corpo di chi scrive. Allora passare dalle performance dei romanzi a una scrittura che mi fa agire in scena non risulta poi essere una dimensione così assurda.

Continua a essere un maratoneta?
Corro ancora, sì, anche se non posso più permettermi le maratone perché sono pieno di acciacchi. Maratoneta, però, è una condizione dell’anima, non si smette mai di esserlo.

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