11 luglio 2022, arriva la notizia dell’arresto di Jafar Panahi che si era recato in procura a Teheran per chiedere notizie sull’arresto nei giorni precedenti di altri due registi iraniani, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, colpevoli secondo l’accusa di aver partecipato, attraverso i loro account social, alle proteste seguite al crollo, ad Abadan nel mese di maggio, di un palazzo che ha causato la morte di 43 persone.
Qualche giorno più tardi arriva la notizia che il regista dovrà scontare sei anni di carcere comminati da una precedente condanna nel 2010 per “propaganda contro il sistema”. Condanna che era rimasta non eseguita, ma che l’aveva costretto ad un regime di libertà condizionata che poteva essere revocato in qualsiasi momento. Regime che lo stesso regista aveva coraggiosamente disatteso più volte coi suoi film clandestini, This Is Not a Film, Closed Curtain, Taxi Teheran, Tre volti e No Bears, presentato quest’anno al Festival Venezia. Tutti girati, con la parziale eccezione di Tre volti, nella casa del regista o dentro un taxi che scorazza per Teheran munito di telecamera interna a riprendere la varia umanità che entra nell’auto lungo il percorso. Di fronte a questa recrudescenza giudiziaria, che interrompe con violenza quella che sembrava essere una silenziosa accettazione dello status quo da parte del regime iraniano, la voglia di compiere in questo box una breve analisi del cinema di Panahi passa in seconda linea, sostituita dalla speranza che possa il prima possibile uscire da quello che appare a tutti gli effetti come un intollerabile sequestro.
Al centro della narrazione, due storie che scorrono parallele e raccontano alcuni tra i contrasti sociali e culturali che attraversano l’Iran dei giorni nostri. Lo stesso Panahi interpreta un regista alle prese con problemi di convivenza con la popolazione del villaggio al c...