Per quel che riguarda invece Jafar Panahi, il film presentato in Concorso a Venezia, che per tutti coloro i quali hanno già avuto modo di vederlo è il miglior lavoro tra quelli da lui girati negli ultimi anni, il più compiuto ed esteticamente impressionante, è ormai il quarto che il regista realizza in condizioni di clandestinità. Una clandestinità che è anche espressione della rodatissima ipocrisia del regime iraniano, che naturalmente non può non sapere che un autore come Panahi, al quale da anni viene negata la possibilità di uscire dal Paese dandogli però la possibilità di muoversi nel Paese stesso, sta girando ‘nascostamente’ dei film. Film che poi trovano il modo di uscire dall’Iran nonostante per il regista ci sia il divieto di lavorare, oltretutto ricevendo in diversi contesti internazionali il giusto riconoscimento. Un rapporto sottilissimo in cui tutti sanno e nessuno dice, una stortura che solo l’insensatezza di una dittatura riesce a spiegare. Ora, con il suo arresto a luglio di quest’anno, la situazione è però precipitata, anche perché a differenza degli arresti precedenti, in base alle informazioni che riceviamo da persone a lui vicine, il regista ha accettato di sottoporsi ad un processo non patteggiando le pene come in passato, quando era stato condannato a diversi anni di arresti domiciliari, poi al divieto di uscire dal Paese e di realizzare film. La scelta di affrontare il processo, quindi di sfidare a viso aperto il regime senza prestarsi a subdoli compromessi, lo porterà quasi sicuramente all’obbligo di rispettare una condanna di cui tutti abbiamo paura, visto l’accanimento che il regime ha sempre dimostrato nei suoi confronti.