Presente e Futura

Fondazione Sardegna Film Commission e i paesaggi di una regione cinematografica
di Redazione VeNews
  • sabato, 3 settembre 2022

Dieci anni di territori e paesaggi da scoprire e riscoprire che sono diventati protagonisti di mille altri mondi reali e inventati grazie all’arte cinematografica. La terra e il mare in Sardegna dominano l’immaginario di chiunque voglia raccontarne la bellezza o di sceglierla come luogo per i loro racconti. Per festeggiare i 10 anni di attività della Fondazione Sardegna Film Commission, continua il viaggio in compagnia di giovani autori attraverso tappe di viaggio emozionali ed emozionanti.

 

Un racconto

di Davide Piras

Futura senza catene

Futura Lilliu ha trent’anni. Se ne sta seduta sul muretto a secco con le gambe a penzoloni. Da quel colle domina tutta la Trexenta: il grano sembra un fiume d’oro che agitato da una tempesta di sole si getta dentro il lago Mulargia. Quando era bambina, a Futura quel nome stravagante non piaceva. E che fosse seguito da uno dei cognomi più ricorrenti nell’isola era stato motivo di scherno da parte dei suoi coetanei. Per deridere la stramberia anagrafica la chiamavano “La cugina di Alain Delogu”, o ancora “La sorella di Heather Pirisi”. Era colpa di suo padre se portava quel nome; gliel’aveva dato perché adorava Lucio Dalla più dei Tenores, delle Launeddas, della poesia A Bolu e dei Tazenda. A pensarci bene, vista la passione smodata del suo vecchio per il Cagliari Calcio, aveva rischiato di chiamarsi Luigia Lilliu o Gianfranca Lilliu. Perdipiù, uno dei giocatori preferiti di suo padre era stato Eupremio Carruezzo. Non chiamarsi Eupremia Lilliu è quindi già un regalo. Adesso Futura le piace, le sembra che contenga la profezia del suo destino….

Mentre agita la paletta bianca e rossa, veste il giubbino giallo fosforescente che da lontano la fa brillare come una pozza d’acqua ai piedi di un incendio. Attende che passi il treno per poter levare la catena che chiude il passaggio a livello, e sogna di essere altrove anziché in quella campagna muta e desolata che prima di lei era toccata a sua nonna, a sua madre e a sua sorella maggiore, donne che compongono la dinastia delle guarda-barriera, un mestiere che in quell’angolo remoto di Sardegna si eredita solo aggrappandosi alle radici di un albero genealogico tutto al femminile.

Futura è nata lì, dove vivono persone così vecchie da essere quasi immortali; lì, dove tutti conoscono e portano avanti l’opera di Maria Lai. Futura non è mai andata oltre Cagliari, né più in là dell’Atene sarda. Non sa cosa ci sia dopo le montagne del capo di sopra, né sa cosa ci sia al di là del mare più a sud. Già, il mare. Lo ama, sogna di essere una marinaia e di perdersi nel punto in cui acqua e cielo diventano un tutt’uno: è convinta che nel mezzo di quell’azzurro fiabesco sparisca la gravità e si possa volare. L’attesa infinita del treno la aiuta a fantasticare, i profumi di macchia mediterranea le scatenano immagini che forse non esistono, il silenzio dei campi e le vibrazioni della natura donano una colonna sonora alternativa ai suoi pensieri che viaggiano assegnando a ogni paesaggio le musiche di Faber e del suo ultimo concerto in Sardegna, che Futura ha visto a Nùoro in un’epoca che già le sembra lontana, durante l’incanto dei suoi sedici anni. Deve decidere il suo domani, è combattuta. Non sa cosa farà nel futuro, non l’ha mai saputo davvero. Fare la guarda-barriera è quasi un lascito morale. Lei però vorrebbe accudire le pecore come faceva suo nonno e come fa suo padre. Ma Giovanna, quella madre austera ed esigente, non gliel’ha mai permesso: le concede di tessere e di tenersi il lavoro ai passaggi a livello, ché è vergogna per una donna andare dietro le pecore. No, meglio “studiata” oppure sposata con un bel ragazzo di buona famiglia. E se non è bello ma è di buona famiglia, va bene lo stesso. Ora però c’è una possibilità: Patrizia, una sua cara amica, non ha più voglia di combattere con le istituzioni e ha scelto di abbandonare il lavoro nella miniera di carbone di Nuraxi Figus; le ha proposto di rimpiazzarla, e Futura per la prima volta sta capendo che non può vivere la vita che sua madre vorrebbe farle vivere. Sogna il mare, la realtà è invece indipendenza. La locomotiva fischia. Futura controlla l’orario: non può rischiare di sbagliare il tempo, dalle cadenas – come le chiamano da quelle parti – dipende la vita degli uomini e delle greggi. La sua, di catena, è proprio il tempo. La tiene imprigionata a quel luogo. I campanacci suonano una nenia ritmata dall’andatura caracollante delle pecore. Il treno sfreccia sbuffando. Futura sgancia le catene e capisce che è giunta l’ora di spezzare anche le sue: accetterà il lavoro in miniera; è vero, deluderà sua madre e in quel fosso di cinquecento metri non farà la marinaia e non affronterà il mare in burrasca, ma si fonderà con la sua terra, vivrà le sue esperienze ed entrerà in simbiosi con tutto ciò che arriverà dal profondo.

Futura aggancia le catene di sicurezza e la gabbia metallica comincia la discesa. Nelle interiora della terra non c’è mai luce piena e non c’è mai silenzio. Un’oscurità perenne rotta solo dal lucore soffuso dell’illuminazione artificiale schiarisce la galleria e impedisce di perdersi. I demolitori urlano come demoni infuriati contro le preghiere a Santa Barbara protettrice dei minatori. Di donne in miniera ce ne sono state tante: crivellatrici, cernitrici e addette alla laveria. Il sottosuolo però è stato sempre una questione per uomini. Le cose cambiano. Laggiù, nell’umido, nelle tenebre, dove la temperatura sale anche di quindici gradi rispetto all’esterno, sente spesso le voci. Non sono parole dei suoi colleghi. Quelli tacciono quasi sempre, ché non ci si può distrarre quando si scava nei pozzi d’estrazione. No, le voci che sente sono quelle degli uomini neri, con l’anima bianca e il viso sporco di carbone. Sono morti di silicosi, o schiacciati in un crollo, o trascinati in fondo al pozzo da una cinghia difettosa. Raccontano le loro storie. C’è anche il padre di Patrizia: un giorno Futura dirà alla sua amica di averlo conosciuto. E le dirà che anche lei in miniera ha sfiorato una morte dignitosa, da uomo, ritenuta da tutti più nobile rispetto a quella capitata alle donne che se n’erano andate distese in un letto dopo aver accudito il proprio marito per tutta la vita. Morire dentro una miniera vale di più che morire in altri posti, è così da sempre. Se non morirà in poco tempo, le toccherà però una morte normale come a tutti gli altri: scioperi e occupazione del pozzo non hanno portato a nulla: la miniera verrà chiusa nel giro di poco tempo, così è stato deciso dall’alto da persone che non hanno mai visto cosa c’è in basso. Dicono che ormai costa troppo estrarre il minerale. Come Futura, gli uomini neri sono nati in un’isola, sognavano il mare, volevano essere marinai, ma appartengono alla terra, all’oscurità. Sono gli ultimi, e Futura è sola come lo era Patrizia.

Quando arriva il giorno della chiusura, spetta a Futura il compito di mettere i sigilli agganciando le catene al cancello d’ingresso. Non è difficile, lo fa d’istinto, lo stesso delle sue donne di famiglia. Non sa cosa farà adesso. È già notte. Alza gli occhi: un cielo d’ossidiana esibisce costellazioni di peltro. Lo scenario ricorda Mappe Stellari, l’opera di velluto nero e fili bianchi realizzata da Maria Lai. Futura sa cucire, tutte lo sanno fare nella sua comunità, come tutte sanno preparare pardulas e papassinos. Ha anche conosciuto Maria Lai; Ulassai dista pochi chilometri dal suo paese natale. La grandezza dell’artista l’ha sempre ammaliata. La magia delle sue creazioni esercita un fascino leggendario, lo stesso delle mitologiche Janas, che sopra i nuraghi tessevano come tesseva Maria Lai. Le sarebbe piaciuto riprendere a maneggiare ago e fili, magari usando il bisso, filamento che unisce acqua e terra col sacrificio antico delle nacchere di mare. Farlo significherebbe però dover tornare indietro ricucendo il cordone ombelicale che la tiene agganciata al passato.

Sembra trascorso un attimo e invece sono passati dieci anni da quando è partita. Le mancano la solitudine, il silenzio, la campagna. Vuole riallacciare i rapporti con sua madre, ma vuole farlo a modo suo, senza tessere, senza tornare a fare la guarda-barriera. Nella Trexenta scopre che l’elettricità ha sostituito l’uomo: non ci sono più catene, ogni passaggio a livello è guidato telematicamente. Il suo vecchio lavoro è perduto per sempre. Anche se non desiderava riprendere a farlo, le sembra che una parte della sua vita sia stata uccisa. Si siede sul muretto a secco. Sospira. Un gregge di pecore pascola nel campo accanto. Futura segue il pastore con lo sguardo. Pensa che quell’uomo non abbia bisogno di uno stipendio. Produce carne, latte e formaggio. Soddisfa il fabbisogno della famiglia e non confonde i bisogni con i desideri. Il progresso ha portato le fabbriche, la tecnologia. Ma le fabbriche in Sardegna sono morte.

Dopo altri dieci anni, Futura non ha avuto figli, sua madre la chiamerebbe “lunàdigas”, se solo le parlasse, cosa che non succede da quando la figlia ribelle ha acquistato duecento pecore con la liquidazione ricevuta in miniera. Ognuno vive nel suo posto: Futura nell’ovile, sua madre e suo padre in paese. Futura mangia sano, ha ripreso stima verso se stessa e crede di essere felice anche se non solca il mare.

È notte, il cielo è di nuovo una costellazione di fili e trame come un’opera di Maria Lai; Futura accompagna il gregge nel recinto e si appresta a chiudere il cancello. Una mano diafana le trattiene il braccio. Sua madre è lì, piange, le dice «figlia mia», la abbraccia e le accarezza i capelli che profumano di verbena. Nessuna catena le terrà più chiuse in vite lontane.

 

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