Pura energia

Dieci anni di storia e tradizione con Sardegna Film Commission
di Redazione VeNews
  • mercoledì, 7 settembre 2022

Il territorio, la gente e la lingua, tutto in Sardegna grida fortissimo la voce della storia e della tradizione. Un racconto in cui il cinema è solo la somma di tutto quello che racchiude una Regione unica.

 

Un racconto
di Gabriele Tanda

Il richiamo della cura

Il pane carasau sembra sempre che assomigli alla Sardegna. Ne mangio pezzi frantumati immersi nel latte, c’è caldo e sulla mia scrivania si fanno spazio pagine piene di appunti. Chiudo una telefonata con mia madre: devo andare da lei fra poco. In bagno mi tolgo la maglietta, prendo una spruzzata di sapone e alzo il braccio per sciacquarmi.

Suercu è la parola che mi risuona tra i ricordi quando penso agli ultimi mesi di vita di mio padre. Suercu è una parola sarda che significa “ascella”, e mi veniva intimata quando lo aiutavo a lavarsi, dato che lui era impossibilitato dagli aghi che gli trafiggevano le mani. L’ordine era quello di sfregare più forte per togliere il puzzo di sudore contaminato dai farmaci. Prima era raro che mi parlasse in sardo, lo faceva molto più spesso con i miei fratelli maggiori. A me, figlio inatteso frutto del carnevale, era stato interdetto l’uso di quella lingua, anche se ne ero circondato sia in famiglia sia nelle nostre frequenti visite in paese. Lì provavo a usarlo, ma non con i miei, come se fosse un tabù, un pudore legato a sfere di una profonda intimità. L’idea dominante era, e forse per alcuni lo è ancora, che parlarlo fosse una cosa disdicevole per persone trasferite in città, una trasgressione retriva, una nostalgia di un tempo oscuro. Eppure quell’apertura al sardo con me, quella volontà di difendersi dalla fragilità patologica con la propria lingua madre mi impressionò. Quasi fosse un anticorpo, come se in quel momento di sofferenza chiamare il proprio organismo, le sue parti doloranti, con la lingua più viva che aveva nella testa creasse una speranza di guarigione ulteriore, un nuovo coagulo di energie.

Questo cambiamento era generalizzato, ma con me insisteva in termini più specifici. Come se fosse una prova, una sfida al mio essere letterato in una lingua che anche a lui era stata imposta dalle convenzioni dell’educazione e dalle istituzioni. A queste sfide però non riuscivo a rispondere, rimanevo senza voce.

Nei deliri da morfina, invece, la lingua privilegiata era l’italiano. Posseggo ancora un file audio dove una mattina, sconvolto da alcune allucinazioni notturne, mi chiese di registrare una testimonianza, una denuncia contro un’organizzazione segreta all’interno dell’ospedale. La lingua è un italiano burocratico e formale, quello del suo lavoro di funzionario pubblico. Era lui che mi aveva chiesto di registrarlo per ottenere l’aiuto delle «forze di pubblica sicurezza».

Più la malattia peggiorava, maggiore era la sua necessità di rifugiarsi in ciò che si era proibito per educazione e disciplina familiare: fisicità ed emozioni. Voleva la nostra presenza al suo fianco per risolvere questioni aperte. Lui sapeva che ormai stava per varcare quel confine che non avrebbe mai voluto varcare, eppure era assetato di ogni istante e lo affermava in maniera chiara. Furono queste le sue ultime volontà insoddisfatte.

Ho sempre avuto la percezione che il mio concetto di frontiera non sia un limite astratto, ma concreto che respira con il flusso delle onde: c’è nettamente un dentro e un fuori delimitato dal mare. Questo può anche essere meraviglioso e turchese, ma rimane comunque una barriera netta e misteriosa: una sfida ad una profondità nascosta, turbolenta e insondabile. Probabilmente è per questo che ho sempre guardato con sospetto i turisti balneari.

Mio padre non sopportava il mare e non sapeva nuotare e forse è per questo che quando galleggiava sul confine, magari acclimatando il suo spirito al liquido della morte, non riusciva più a parlare. Rantoli e sguardi persi, sillabe frantumate. Affondò lasciandosi andare in un silenzio forzato.

Percorsi la solita via di coprire il lutto con il lavoro. Insegno italiano in una scuola di città, ma per riempire gli attimi di disagio e tristezza trovai un altro lavoro: traducevo e scrivevo i sottotitoli dei film per una piattaforma streaming. Ho saputo che alcuni miei lavori sono stati usati come base per fare il doppiaggio. Fatti bene anche se pagati poco, dunque, ma non era per il guadagno che affrontavo quello sforzo. Nei fotogrammi che fluivano davanti a me dovevo rubare un significato a un’altra lingua e condurlo ai miei soliti recinti di senso. Rassicurante, allo stesso modo delle correzioni agli errori di pronuncia e ortografia dei miei studenti. Un mettere ordine tranquillizzante, forse per nascondere ciò che non tornava.

Arrivarono l’estate e le ferie, ero stremato e avevo troppo tempo libero, perciò mi dedicai a un’immersione totale nel cinema, nelle serie televisive e nei libri, ma le amicizie e il caldo mi stanarono dalla mia casa. In uno di questi tradimenti al mio programmato ritiro andai con alcuni amici a farmi un aperitivo: parlavano di Assandira, che io non avevo visto. Dichiarai con una frase che li stupì per la stizza con cui la dissi, che i film sardi erano tutti delle cagate pazzesche, ma non fui accolto dai novantadue minuti di applausi riservati a Fantozzi, anzi si innestò una lunga polemica che non mi divertì. Loro volevano aprirmi la mente, farmi superare i pregiudizi, perciò mi costrinsero ad andare ad una rassegna la sera successiva.

Davano L’agnello, che mi turbò: le mie aspettative erano state tradite. In alcune parti riuscii a stento a trattenere le lacrime. La tenerezza tra padre e figlia era la cosa che più mi mancava in quel caldo soffocante, ma ciò che mi colpì fu la reazione al risentire la lingua sarda. Dopo il trigesimo era sparita dalla mia vita: quando andavo a visitare mia madre o i fratelli, tutti mi parlavano in italiano. Anche questo un altro filo del velo di controllo che avevo tessuto come barriera alla tristezza. Il mio corpo vibrò come percorso da una scossa, una lieve detonazione interna che crea crepe, che rovina ma non distrugge. Forse fu proprio quel film a frantumare l’obbligo delle rassicurazioni che mi ero imposto: la fuga dal dolore la trovai una vigliaccata, prima di tutto verso me stesso.

Dopo qualche giorno mi obbligarono, questa volta senza trovare grosse resistenze, ad andare a vedere Macbettu. Il titolo mi lasciò perplesso, ma era stato premiato e gli diedi fiducia. Quella che ne L’agnello era stata una pioggerellina di parole in sardo, qui divenne un acquazzone estivo che mi portò dentro quel perturbante che stavo fuggendo. L’ambizione io la rivoltavo su me stesso, i sentimenti erano il mio regno. L’ansia di controllo era la medesima in cui io affogavo, ma che in quel momento si stava incrinando davanti a quelle parole così tamburellanti, urlate e danzate. Ebbi paura che qualcuno degli amici potesse intuire il mio smarrimento, che potesse svelare ciò che mi stava capitando. Finì e non volli nemmeno cenare: tornai subito a casa, avevo necessità di svenire dentro i miei incubi.

Dopo quella volta non riuscii più a dormire bene e non solo per colpa del caldo notturno. Nel sonno tornavano alla mente gli sguardi di Gavino Ledda e di Macbettu che mi intimavano: “suercu!” Un richiamo alla cura di ciò che si dà per scontato: come i genitori che sembra ci debbano sempre accompagnare, come una lingua che ci illudiamo che sopravviva anche senza parlarla, come la terra che calpestiamo senza che si rivolti.

Il caldo si è ormai smorzato e da una settimana ho ripreso a dormire.

Entro nella cucina di mia madre e la trovo seduta sul divano, con il viso ancora sofferente dal lutto. Sa che sono lì, ma tace. Mi potrebbe rimproverare per la mia assenza di mesi, per la mia carnagione pallida, ma invece aspetta che sia io a rompere il silenzio.

Sospiro: «Ciao…», poi prendo coraggio, «Ite… ite mi contas?».

Lei mi guarda e si scioglie in un sorriso.

 

 

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