Isola comune

Il cinema in Sardegna tesse i sogni con la realtà
di Redazione VeNews
  • venerdì, 9 settembre 2022

Ultimo capitolo, ma solo per Venezia, i racconti continueranno nei prossimi Festival così come i festeggiamenti per il decimo compleanno della Fondazione Sardegna Film commissione.
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Un racconto 

di Roberta Balestrucci Fancellu

La tessitrice di sogni

«Anita, dove sei? Esci fuori di lì o mamma ti surra!»
Mia sorella Mariuccia sapeva sempre convincermi a fare come voleva lei: bastava quella sola frase per riportarmi alla realtà.
Già perché io nella realtà, non ci so proprio stare. Scusate signori, è una cosa più forte di me.
Il mio gioco preferito, fin da piccola, è sempre stato quello di immaginare nuovi luoghi, e cambiare ciò che non mi piaceva in qualcosa di nuovo. Una sera, per esempio, i miei mi costrinsero a passare alcuni giorni da zia Nicca e zia Rina, due sorelle che per scelta non si sposarono mai.
Vivevano in una casa buia e piena di attrezzi da lavoro. Il piano terra custodiva i resti della falegnameria che era appartenuta al padre, mio bisnonno Pietro, e ogni volta che mettevo piede in quella stanza io mi ritrovavo nelle umide segrete di un castello, prigioniera di un temutissimo drago sputa fuoco. Ma solo quando riuscivo a prendere le scale e salire di corsa al piano superiore, dove una delle zie teneva tutti i suoi utensili da cucito con tanto di manichini e stoffe colorate, mi sentivo al sicuro in una delle più prestigiose boutique parigine degli anni Trenta. Quando lo raccontavo a mia madre in auto, lei diceva che non c’erano draghi dalle zie, tanto meno il loro paese sembrava Parigi; insinuava sorridendo che quelle visioni erano causate dal Vov casalingo altamente alcolico che le zie facevano bere a me e ai miei cugini per tenerci fermi sul loro canapè. Non avevano più l’età per stare dietro ai bambini come un tempo.
Mia nonna invece mi diceva che da grande, se avessi continuato a guardare il mondo con quegli occhi, e creare mondi invisibili col pane carasau (che con il pane non si gioca) che con quello sarebbe peccato non usare la fantasia, probabilmente da grande sarei diventata una sarta di sogni. A pensarci ora, nonna Leonarda aveva già capito tutto.

E dire che aveva l’innocenza di chi è nato nei primi del Novecento, disabituato a vedere la malizia negli altri. Era sveglia, all’avanguardia. Pure mia madre lo era, proprio perché aveva preso da lei, anche se cercava sempre di tenermi con i piedi per terra, ancorata a quelle catene di realismo che non permettono di volare con la fantasia; catene che segnavano bene il luogo e il tempo in cui fermarsi, quasi ad aspettare il proprio turno, proprio come a un passaggio al livello.
«Lascia stare queste fesserie, il lavoro non è andare in giro così, a fare niente. Per essere sicura devi avere la scrivania. Il posto fisso, mì, come tua cugina. Ma perché non fai come lei, eh? Perché non diventi maestra?»
Il posto fisso. Una stanza in cui rinchiudersi nella speranza che nessuno ti portasse via l’unica entrata economica per la quale avevi faticato con anni di studi. Certo in alcuni anni la Sardegna è stata anche questo, e mia madre forse è rimasta ancorata a quel periodo; però il mio piccolo mondo fatto di rivoluzioni giornaliere io lo volevo vivere, e soprattutto volevo farlo vivere agli altri.

Il mio obiettivo da quel momento fu mettere a servizio la mia fantasia, i miei occhi per salvare i mondi che tutti avevamo a disposizione. No, non come un supereroe, ma valorizzando appieno il territorio, l’ambiente a cui appartenevo. Poter raccontare a bolu una storia, usando i luoghi che conoscevo o che negli anni avrei imparato a guardare, cercando di capire come il volo di una rondine, che arriva nel punto più alto del cielo per poi planare elegantemente su una mandria di mufloni che si rincorre sulla terra umida e i ginepri, possa raccontare una delle storie più belle della Sardegna.

Una sera convinsi mia madre a venire con me al cinema all’aperto. Le sedie erano sistemate nella piccola piazza dell’Olmo in modo da accogliere i pochi abitanti del paese. Quando il fascio di luce tagliò in due l’aria, sul muro della casa di tzia Luigina apparvero degli uomini vestiti da pistoleri. Inseguimenti a cavallo, corse, sparatorie, donne in pericolo da salvare. Era tutto di fronte a noi, era la magia che si compiva davanti ai nostri occhi: un po’ meno per tzia Luigina che ogni volta si ritrovava a condividere il pasto in cucina con tutti i protagonisti dei film che venivano proiettati sul suo muro!
Alla fine però, non appena chiesi a mia madre cosa pensasse del film, lei mi rispose: «Eh già era bello, ma chissà dove devi andare per stare nel deserto come quei cowboy!»
«Qui ma’, in Sardegna!»
«Ohi non dirne! Domani studia che quando torni a scuola non devi farmi fare brutte figure con la maestra. E non tardare a spegnere la luce.»
Era in quel buio che la mia mente iniziava a modificare la stanza, a immaginare come sarebbe potuta essere la piazza del paese, e quali meravigliose avventure si sarebbero potute vivere in quell’ordinario che con poco, e nel rispetto di tutti, sarebbe potuto diventare straordinario!
Come?
Con il cinema, certo. Ma il cinema in Sardegna era solo un’ utopia per i grandi, e io sentivo che qualcosa sarebbe cambiato, ne ero certa. Bisognava solo provare un’altra prospettiva.
Qualche giorno dopo mio padre mi accompagnò in campeggio: lui e mia madre erano troppo occupati con il lavoro per portare me e Mariuccia al mare, perciò ci affidarono alle cure delle catechiste, e via alla volta delle spiagge di S’Archittu.
Quando arrivammo fissai uno strano promontorio, aveva la forma di un sottomarino. Vidi subito una portaerei ferma al largo di quel mare apparentemente calmo, il fischio di proiettili sfiorarmi le orecchie. Bastò un attimo per ritrovarmi nel bel mezzo di una battaglia degna della Seconda Guerra Mondiale!
Scossi la testa per allontanare quell’immagine, ma ottenni l’effetto contrario.

L’indomani con un gruppo di amici ci allontanammo dagli altri con la scusa di fare una passeggiata sul bagnasciuga. Organizzammo in brevissimo tempo una gara di tuffi da quello che tutti conoscevano come il punto dell’arco. Bastava contare fino a tre, prendere la rincorsa e lasciarsi andare a bomba tra quelle acque cristalline.
Quando risalii in superficie risi con gli altri per la follia appena compiuta. E appena mi girai, rimasi folgorata.
Nuotai nella direzione opposta rispetto ai miei amici, e quando uscii dall’acqua non ebbi alcun dubbio: ero atterrata sulla luna. Passo dopo passo mi sentivo come Armstrong, il primo uomo che ebbe il compito e l’onore di saltellare sul satellite. Il bianco delle rocce mi guidava su una strada immaginaria, dove piano piano apparvero uomini e donne. Li vedevo lì austeri, ordinati con occhi severi: eravamo tutti sulla luna. E si sa, lì ci finisci o perché sei Armstrong, o perché qualcuno ti ha perso e sei stato dimenticato per troppo tempo da chi, sulla Terra, ha smesso di farsi domande.
I miei amici erano tornati senza di me alla spiaggia. Corsi per non perdere il pranzo e per non sorbirmi l’ennesimo rimprovero della catechista.

Non dissi niente delle visioni di quella mattina, non avrei mai voluto che i miei giochi potessero essere associati a un colpo di calore.
Quando ci pensai di nuovo, quella notte, fissai il mare dalla terrazza della casa che ospitava noi giovani scalmanati. Eravamo ai primi amori, ai primi baci scambiati di nascosto tra i corridoi delle camere o su quella stessa terrazza, al buio. Chissà da lì alla partenza quante cose sarebbero cambiate, quanti segreti quello scrigno fatto di acqua e sale avrebbe custodito, e quante volte avrebbe suonato un’ultima habanera per i nostri giovani cuori infranti.
L’indomani prima di scendere in spiaggia con gli altri mi fermai dal tabaccaio, comprai un quaderno a quadretti, e iniziai a descrivere i luoghi che vedevo e come li ricostruivo passo passo nella mia mente. Iniziai anche a disegnare come sarebbero potute cambiare le stanze e i paesaggi dopo il mio passaggio.
Dicono che per fare il cinema devi saperti guardare attorno, e io ho imparato.

Ho imparato anche a rispettare i luoghi che ho abitato per lavoro, e ho imparato che noi tutti siamo piccole isole che quando entrano in contatto si raccontano, scambiano idee e crescono sempre di più contaminandosi, rendendo vera quella magia che io per anni ho visto sul muro di tzia Luigina entrandoci dentro e portando con me, in luoghi ancora sconosciuti, tutti coloro che ora si siedono sulle sedie di un cinema. Cerco luoghi, li trasformo: creo mondi tessendo così la mia umile poesia.

Mia madre? Lei ormai è la mia fan numero uno, e non vi nego che ha occhio per i mondi invisibili!

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