Princess è il secondo lungometraggio del regista romano Roberto De Paolis. Il film affronta il tema spinoso dello sfruttamento illegale della prostituzione nigeriana ed apre il concorso della sezione Orizzonti.
Princess è il suo secondo lungometraggio, come è nata l’idea di questo film che tratta un argomento non facile come la prostituzione e l’immigrazione clandestina?
Tutto nasce dall’idea di voler provare a fare un film privilegiando il punto di vista di un’immigrata, situazione piuttosto inedita in Italia. Alla base c’era il tentativo di chiedersi che tipo di esperienza sarebbe stata cambiare la prospettiva anche verso il nostro Paese, visto attraverso gli occhi di una figura figlia dell’immigrazione clandestina utilizzando lo strumento cinematografico, che ha nelle sue corde un linguaggio più specifico, più personale ed intimo rispetto ai racconti giornalistici. Volevo cercare di individuare un personaggio, dandole voce, un volto con un racconto personale. Questa è stata la prima idea. Volevo provare a vedere se un team di lavoro italiano sarebbe stato in grado di raccontare le vicende di queste immigrate clandestine nigeriane, fondendo punti di vista diversi, abbandonando la pista ideologica, cercando di fare un film sulla loro esperienza, un lavoro di ascolto e di ricerca molto approfondita. La prostituzione è un tema che si è aggiunto in seguito. Mi è sempre sembrato un mondo a parte, pazzo, assurdo, estremo… una metafora perfetta per una serie di questioni umane. Due persone che condividono la massima intimità fisica senza nemmeno conoscere i loro rispettivi nomi riporta tutto a un livello quasi carnale, istintivo. Eppure, ci sono soldi e potere coinvolti. La prostituta va in scena tutti i giorni, recita per la platea di clienti, nel film solo alcuni erano attori, altri erano veri clienti, questo continuo cambio di personaggi per un regista rappresenta un mondo molto interessante, fatto di archetipi, di personaggi un po’ mitologici che si presentano in veste contemporanea.
Come è arrivato ad affidare il ruolo di protagonista alla nigeriana Glory Kevin e quanto è stato difficile entrare in empatia con lei per dare i giusti suggerimenti di recitazione?
La protagonista è un’attrice non professionista. Nel film tutti, tranne tre attori, sono non professionisti. Glory Kevin, nata in Nigeria nel 1996 era tra tutte quella che sembrava più impavida, coraggiosa nel lanciarsi in questa esperienza di prendersi un film sulle spalle e diventare la voce di tutte le donne nigeriane, perché è stata proprio questa la ragione principale che le ha convinte: far capire loro che l’idea era quella di fare un film non che denunciasse, ma che raccontasse la loro reale esperienza, cioè loro avrebbero dato corpo a tutte le donne che negli anni hanno vissuto questa la tratta e lo sfruttamento. Un film che potesse raccontare il loro punto di vista, in cui noi abbiamo ascoltato molto e dato grande libertà a loro di rappresentarsi. È stato un lavoro creativo fatto insieme, abbiamo costruito insieme ogni cosa, lasciandole molto libere nelle loro azioni.
Princess è una giovane donna nigeriana clandestina che si prostituisce ad Ostia che, come una leggendaria amazzone, si sposta all’interno di una sorta di bosco incantato, una grande pineta che si estende fino al mare, un luogo in cui potersi rifugiare oltre che trovare font...
Il suo film è una storia, ma sviluppa un tema di grande attualità e fortemente divisivo come l’immigrazione. Non crede si corra sempre il rischio di parlare solo agli informati? Come si potrebbe uscire da questo paradosso?
È una domanda molto complicata, cui dare una risposta non è affatto semplice. Io penso che forse in questo momento molto difficile rappresenti un buon segnale l’aver potuto realizzare il film, con una storia di questo genere costruita con una modalità di lavoro molto inclusiva, convincendo Rai Cinema ad investire quasi un milione e così pure il Ministero, oltre ad un investimento importante da parte di Indigo e anche di Lucky Red come distribuzione. Il cinema come l’arte in questo periodo storico non riescono ad essere incisivi come un tempo, però non bisogna smettere di credere nella loro forza. Quando i film girano nei cinema, nelle arene, nei festival arrivano anche ad una platea inaspettata. Il cinema sa offrire un linguaggio intimista, vedere un film di due ore secondo la prospettiva di una ragazza nigeriana può offrire sicuramente una qualche consapevolezza in più in grado di minare molti pregiudizi.
Essere regista oggi in Italia, come avverte lo stato di salute del cinema nel nostro Paese, al di là dell’atmosfera sempre stimolate del festival di Venezia?
Attualmente lo stato di salute del cinema italiano è molto buono, quello che manca è il pubblico. Negli ultimi10/15 anni sono emersi moltissimi autori che hanno intrapreso con intelligenza e talento la strada del cinema indipendente o autoriale, un cinema impegnato, poetico. Sono molti i registi tra i 35 e i 55 anni che nell’ultimo periodo hanno lasciato un segno, parallelamente si è un po’ perso il pubblico di questo tipo di film. In questo momento tutti stanno lavorando in maniera ossessiva, molto più di prima, ci sono molte produzioni per le piattaforme, un altro tipo di cinema. Ed è un paradosso, ci sono molti talentuosi registi, ma il pubblico latita, esattamente il contrario di quanto accadeva quindici anni fa, in cui c’era una fetta importante di pubblico rivolto al cinema d’autore, in gran parte di provenienza estera, perché in Italia erano pochi i giovani autori che potessero competere con i contemporanei francesi o europei. Ora tutto è in continua evoluzione e ci sono grandi cambiamenti in atto. Dobbiamo attendere senza farci cogliere impreparati dalle novità.