Goodbye, Mr. Friedkin

Il suo cult L’esorcista e il suo ultimo film in programma alla Mostra
di Cesare Stradaioli
  • anteprima 2023

Caustico, poco incline a compiacere pubblico e stampa, decisamente e sempre schierato dalla propria parte, anche se questo gli è costato non poco in termini di carriera, William Friedkin se n’è andato come gli si confaceva, improvvisamente anche se ultraottantenne – non era tipo da dare plateali addii alle scene – alla vigilia di una manifestazione che nel 2013 gli riconobbe un Leone d’Oro alla carriera, atteso in una città che amava, in un Festival che lo ha sempre accolto come si accolgono i grandi.

«Nessuno ha il diritto di dire che Apocalypse Now è meglio di un film della Disney», amava ripetere con il suo stile scorbutico, che celava sotto sotto un sorrisetto stile “ve l’ho fatta un’altra volta” (anche se non di rado ai critici si rivolgeva in modi un pochino meno eleganti), poiché, secondo il suo modo di intendere il cinema, le inclinazioni e i gusti personali sono esattamente tali e così vanno visti, dal punto di vista di chi guarda un film e anche da quello di chi un film lo realizza. E parlando di carattere, ci voleva uno come William Friedkin per prendere dal quasi nulla un attore tutto tranne che belloccio, allampanato e apparentemente inelegante come Gene Hackman e costruirgli subito un volto e una carriera ne Il braccio violento della legge; o per accostarsi senza timore reverenziale a un capolavoro come Vite vendute (Le salaire de la peur) di Henri Clouzot e rifarlo col titolo Sourcerer; o anche per mettere da parte il volto di don Michael Corleone e cucire addosso all’astro nascente Al Pacino il ruolo di un ambiguo poliziotto in un caso di omicidi nell’ambiente gay a New York, tirandosi dietro polemiche a non finire (non gli sembrava vero) compresa l’insensata accusa di omofobia; o infine per prendere il protagonista di Vivere e morire a Los Angeles, considerato un film-riscrittura di genere, e farlo morire ben prima della fine.

L’ESORCISTA

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Ma soprattutto bisognava essere William Friedkin per prendere una storia tutto sommato banale, incentrata sulla presenza demoniaca nel corpo di una ragazzina, e farci capire che non erano le boccacce, le mostruosità e le parolacce a meritare l’occhio e l’orecchio dello spettatore, bensì i volti scavati, tormentati e allucinati del sacerdote e dell’esorcista, la loro sofferenza, la loro morte e trasfigurazione, in un film che dopo cinquant’anni ancora impressiona e terrorizza, lasciandoci alla fine stremati e vicini a storie così umane anche se soprannaturali.

La sua intransigenza e la scarsa disponibilità a piegarsi a determinati dettami dell’ambiente gli hanno precluso la possibilità di realizzare alcuni progetti che certamente gli avrebbero consentito di continuare a costruire un certo modo di immaginare l’arte cinematografica e non solo di raccontarla. Siccome, però, l’uomo non era uno di quelli che lasciano perdere, si è ampiamente rifatto con la lirica curando la regia di opere quali l’Aida, il Wozzeck di Alban Berg e Tannhäuser.

Non ci resta che vedere, in sua memoria, l’accostamento a un altro film di rilievo quale L’ammutinamento del Caine, se non altro come riscatto all’aver dovuto occuparsi nel recente passato di opere minori. Di riscatto, in realtà, ce n’è ben poco, alla fine di ogni suo film; poche le ragioni per vedere al di là di un certo buio nell’anima: ma che si tratti di combattere la criminalità realizzando il più lungo inseguimento della storia del cinema, sfidare le intemperie per trasportare dell’esplosivo, o urlare contro il demonio in modo così violento da sfiorare la blasfemia, i suoi personaggi affannati, accaniti, disperati lo vogliono questo riscatto; vogliono un domani o comunque qualcosa che possa cambiare le loro vite, impersonando tutti il loro autore, anche lui insonne ricercatore di una luce, un’ombra, un volto illuminato a metà da una mezza immagine.

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