«E il mio grido giunga a te». È la risposta alle formule esorcistiche pronunciate da padre Merrin (Max Von Sydow) su Regan (Linda Blair); almeno due volte padre Karras (Jason Miller), la cui fede vacilla, la pronuncia in ritardo. «E il mio grido giunga a te». È questo il problema del capolavoro di William Friedkin: arriva questo grido a Dio – o è tutto Inferno?
Perché i danteschi vexilla Inferni sono ben visibili sulla terra. Nella metropolitana coi suoi barboni, nel quartiere miserabile dove vive l’anziana madre di Karras, nel manicomio dove finisce ricoverata. E nell’angoscia del prete che inconsciamente si incolpa di averla abbandonata (a un certo punto il demonio nel corpo di Regan per colpire moralmente padre Karras assumerà la figura fisica della madre morta). Lo scopo del diavolo è di convincerci che Dio non ci può amare, dice il colloquio fra i due preti in una pausa dell’esorcismo, che è una delle scene reintegrate.
Infatti la riedizione 2000 de L’esorcista (impropriamente detta “integrale”) ripristina alcune scene tagliate in montaggio nel 1973, pervenendo a mio parere a un effettivo miglioramento del già splendido originale. Dunque nella contesa sorta sui tagli fra William Friedkin e William Peter Blatty (sceneggiatore dal proprio romanzo) nel complesso aveva ragione Blatty.
Il realismo della possessione (i fenomeni preternaturali, il vomito, le oscenità) è l’aspetto più evidente ma non è il cuore de L’esorcista: che non è un film dell’orrore ma del dolore. Prima di irrompere nel corpo di Regan, l’inferno sta già nel dolore u...
Si sa che Friedkin e Blatty non pensavano a L’esorcista come a un horror. Potremmo dire che non è un film dell’orrore bensì un film del dolore. È, quello del dolore e dell’abbandono, un tema portante de L’esorcista. Nella scena straziante della visita di Karras al manicomio, le vecchie ricoverate gli si affollano intorno importunandolo. Non perché, com’è stato detto, riconoscano in lui il prete. Sono madri, madri abbandonate (o mancate), che nella visione nebulosa della follia vedono in lui una figura sostitutiva del figlio.
Se la madre di Karras si sente abbandonata dal figlio, l’adolescente Regan si sente abbandonata dal padre; per tutto il film corre una sottile correlazione fra le due figure. L’esorcista è un film tutto intessuto di richiami, rimandi, anticipazioni, corrispondenze, opposizioni, scambi (questa fitta tessitura è caratteristica di tutta l’opera di Friedkin, un gigante sottovalutato del cinema americano): sul piano narrativo, sul piano strettamente visivo, su quello sonoro (vedi ad esempio la prodigiosa sequenza di apertura).
E se menzioniamo il sonoro tocca concedersi una digressione per rendere omaggio a tutto il lavoro sul suono – magistrale, audace, raffinatissimo – nel film. L’esempio più facile sono (non tanto paradossalmente) i silenzi. Se di solito il silenzio è solo l’assenza di rumore, ne L’esorcista questi momenti – ottenuti da Friedkin con speciali microfoni filtranti – sono bolle di un silenzio assoluto e vischioso: pesano materialmente sulla scena. Ecco perché un luogo comune del cinema di suspense quale l’irruzione improvvisa di un rumore (più volte nel film lo squillo del telefono o del campanello) arriva letteralmente come uno shock.