Il 13 ottobre 1972 il volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana si schianta contro un picco di roccia mentre sorvola le Ande, con a bordo una squadra di rugby diretta a Sa...
Il 13 ottobre 1972 un Fokker uruguaiano si schianta in una zona impervia delle Ande, da allora in poi chiamata Valle delle Lacrime. Il 21 ottobre vengono già interrotte le ricerche e solo il 23 dicembre, dopo la lunga marcia lungo le montagne ricoperte di ghiaccio da parte di due dei sopravvissuti, iniziano le operazioni di recupero. Delle 45 persone a bordo, tra cui un’intera squadra di rugby, se ne salveranno solo 16, sopravvivendo al freddo, alle valanghe, alla fame e alla sete.
I giornali italiani in un primo momento non diedero grande risalto alla notizia. Per quanto riguardava l’America Latina, l’interesse della stampa era principalmente rivolto alle difficoltà del governo di Allende. Per di più a fare notizia ci fu, il 15 ottobre, l’esplosione di un aereo russo che causò 172 vittime. Divenne invece un caso celebre solo quando i sopravvissuti confessarono di essersi cibati dei corpi dei compagni morti, scatenando un grande dibattito sulla liceità di tale gesto. Pablo Vierci, giornalista e scrittore, amico di molti dei sopravvissuti, ne raccoglie le testimonianze e le racconta nel libro La sociedad de la nieve. Diversi i piani del racconto. Sulla cronaca degli eventi si inseriscono le vite dei protagonisti, dai giorni prima della partenza sino al ritorno alle famiglie e “alla società convenzionale”, come la definisce Roberto Canessa, un altro dei 16 superstiti. Allora studente di medicina, Canessa divenne successivamente cardiologo pediatrico presso l’ospedale italiano in Uruguay.
Nel libro di Vierci sono riportate anche le riflessioni personali dei superstiti elaborate nel corso degli anni: di chi come Coche Inciarte, il primo a confessare gli atti di antropofagia, che diverrà conferenziere, di chi come Pedro Algorta che terrà invece la vicenda segreta tormentandosi tra mille dubbi, o ancora di chi come lo stesso Canessa che a distanza di anni arriverà alla seguente, lucida conclusione: «Sulla montagna ho capito che i gruppi che funzionano sono quelli in cui ciascuno dà il meglio di sé. Tutti eravamo parte di un organismo che si è rivelato molto generoso perché, tra le nostre priorità, oltre alla fuga, c’era anche il prendersi cura dei feriti, di coloro che soffrivano maggiormente. In quel momento ho scoperto che […] una situazione limite, estrema, particolarmente dura, molto umiliante permette all’essere umano di tirare fuori il meglio di sé e non il peggio».